L’avvocato Francesco Romito, legale di Giuseppe De Donno, ricostruisce due anni di indagini dell’ex ufficiale dei Carabinieri dentro Cosa Nostra. Sino all’assoluzione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo «perché il fatto non costituisce reato». Una condanna che ha smontato il teorema dell’ormai presunta trattativa Stato-Mafia.

Ribaltata la sentenza di primo grado nel processo d’appello anche per il capitano del Reparto operativo speciale di Palermo Giuseppe De Donno, oggi in pensione con il grado di colonnello: in primo grado era stato condannato a 8 anni di reclusione all’interno del complesso filone processuale sulla presunta “trattativa Stato-mafia”, che secondo l’accusa avrebbe visto organi dello Stato, dopo gli attentati di Capaci e Via D’Amelio, scendere a patti con Cosa Nostra per costringere i governi in carica ad ammorbidire le condizioni detentive dei mafiosi in regime di carcere duro.


Francesco Antonio Romito, legale del capitano De Donno:
«Resa giustizia a due anni di indagini portate al cuore di Cosa Nostra».

Panorama.it ha incontrato l’avvocato romano Francesco Antonio Romito che ha ricostruito, con dovizia di particolari, il drammatico biennio 1992-1993, il punto più rischioso toccato dalla nostra Repubblica quasi piegata dalla tracotanza mafiosa. In realtà dalle parole del legale emerge come proprio in quegli anni fosse maturata, grazie ad una nuova strategia info-investigativa condotta sul campo minato di Palermo, la riscossa delle istituzioni democratiche, uscite in ginocchio ma non sconfitte dalla strategia stragista.  
Avvocato Francesco Romito lei ha difeso il capitano De Donno: partiamo dal dato processuale più emergente, ovvero la formula della sentenza assolutoria, “perché il fatto non costituisce reato”
«L’uso del termine “fatto” estrapolato dalla formula utilizzata dalla Corte d’Assise d’appello di Palermo per mandare assolto il mio cliente deve essere bene interpretato: il “fatto” è dato dai contatti avuti con Vito Ciancimino e credo sia del tutto preliminare capire che De Donno e Mori tentarono di ottenere la fiducia di Vito Ciancimino, di instaurarci un rapporto confidenziale, secondo i dettami del codice di procedura penale, per poi indirizzarlo sulla via della collaborazione».
Partiamo da questo dato, allora.
«Obiettivo era cercare di carpire informazioni su quello che stava accadendo: c’era stata l’attentato di Capaci il 23 maggio 1992 e appena due mesi prima l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima: avere informazioni su autori e cause di uno scontro con lo Stato  portato a così alto livello, da un mafioso di alto livello, per sviluppare indagini finalizzate ad annientare Cosa Nostra».
Vito Ciancimino era già stato arrestato due volte dal capitano De Donno.
«De Donno pensò di contattarlo attraverso il figlio Massimo che talvolta aveva intravisto a bordo dei voli Roma - Palermo. Erano divenute definitive le condanne del “Maxi processo” il 30 gennaio del 1992, e Vito Ciancimino, la cui posizione era stata stralciata, era stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione per associazione mafiosa e per corruzione aggravata il 17 gennaio 1992».
Senza dimenticare l’ingente patrimonio di famiglia…
«Era in corso l’appello sulla confisca di parte del suo patrimonio. Il fondato timore della conferma della condanna per associazione mafiosa a 10 anni, con l’appello fissato all’inizio del 1993, costituiva l’interesse a coltivare a suo vantaggio i rapporti con l’Arma».
Quando iniziarono i contatti?
«All’indomani del trigesimo della strage di Capaci, il capitano De Donno incontrò la dott.ssa Liliana Ferraro - magistrato che aveva preso il posto di Giovanni Falcone come capo dell'Ufficio legislativo della Direzione generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, al contempo legata al giudice Falcone da risalente amicizia -, rappresentandole che avrebbero fatto di tutto per catturare gli assassini di Falcone e accennandole del tentativo di contattare Vito Ciancimino per saperne di più».
Partono gli incontri…
«I primi incontri avvengono tra il quasi 70enne Vito Ciancimino e l’allora neanche trentenne capitano De Donno per tentare di avere notizie sui fatti tragici appena accaduti. Vito Ciancimino non parlava di fatti di Cosa Nostra: non sapeva dare spiegazioni sull’attentato di Capaci, addirittura deviava su “Tangentopoli” come di un fenomeno inevitabile perché connaturato al sistema economico. E’ con la strage di Via D’Amelio che il mio assistito percepì la necessità di coinvolgere il suo superiore».
Un cedimento verso la collaborazione?
«Ciancimino sembrava voler esternare sue valutazioni su quei fatti gravissimi e De Donno intuisce che lo sviluppo del rapporto confidenziale richiedeva la presenza di un ufficiale superiore, di un “capo”, esattamente come si sentiva e atteggiava Ciancimino. Fu allora che accetta di interloquire con l’allora colonnello Mario Mori, vicecomandante del Ros, guidato dal Gen. Subranni che non svolgeva funzioni di polizia giudiziaria. Il 5 agosto del 1992 si formalizza il primo incontro a tre».
La collaborazione fu subito piena?
«No. Vito Ciancimino all’inizio non aveva assolutamente affermato di voler diventare un collaboratore: il colonnello Mori sapeva bene di trovarsi di fronte ad un “volpone”, su quale pesavano le pesanti parole di Giovanni Falcone che lo aveva definito “il più mafioso dei politici e il più politico dei mafiosi”,
Conosceva il respiro economico di Palermo…  
«Perché aveva rivestito il ruolo di assessore ai lavori pubblici e all’urbanistica dal 1959 al 1964, quando sindaco della città era il suo collega ed amico di partito Salvo Lima. Aveva piegato il piano regolatore della città alle esigenze dei gruppi imprenditoriali a lui vicini. Iniziò allora il “sacco di Palermo”».
Una sorta di memoria storica di Cosa nostra. 
«Conosceva molte vicende e personaggi: proveniva da Corleone, dove era nato nel 1924, da cui provenivano Luciano Leggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Di fronte ad una personalità di tale spessore mafioso, con la quale si stavano intavolando contatti al fine di ottenere notizie di assoluta riservatezza nella lotta alla mafia, era necessario tentare una prudente strategia comunicativa».
Strategia rischiosa, soprattutto.
«Perché occorreva porgli le domande giuste, anche provocatorie, andargli dietro nei ragionamenti, allettarlo, non contraddirlo, ma assecondarlo nei ragionamenti, nella quasi certezza che Ciancimino potesse fare il doppio gioco».
Come ragionava Ciancimino?
«Sostanzialmente faceva credere di rendersi disponibile ad infiltrarsi nel mondo degli affari mafiosi per collaborare con i due ufficiali, visto anche che le forze dell’ordine brancolavano nel buio. Vi era assoluta necessità di registrare il maggior numero di notizie e dati, di conoscere la realtà di Cosa Nostra».  
La “cupola” a guida corleonese.
«Che in massima parte sconosciuta, non essendoci ancora pentiti che davano notizie attendibili: personaggi come Gaspare Mutolo stavano collaborando segretamente in quei giorni con altre forze di polizia, ma non si trattava di componenti della “cupola”»
Immaginiamo il clima che si respirava a Palazzo di Giustizia. 
«In questo contesto, per di più i magistrati, all’indomani delle due stragi del 1992, vivevano terrorizzati, nascosti nel Palazzo di Giustizia che avrebbero addirittura voluto chiudere fino a quando, come andavano ripetendo, le forze dell’ordine non avessero catturato i boss latitanti e gli esecutori materiali delle due stragi».
Per non parlare della città di Palermo.
«Soltanto strutture investigative altamente specializzate per l’epoca avrebbero potuto far progredire indagini nel vuoto di strumentazioni, di dati, di foto segnaletiche attuali, di fascicoli aggiornati: le forze tradizionali territoriali non riuscivano a riportare successi e la stessa Direzione investigativa antimafia, costituita nel 1991, era ancora in fase di strutturazione. Gli incontri con Ciancimino avvenivano a Roma»
Ciancimino non era un qualunque manovale della criminalità locale.
«Intavolare un confronto, trent’anni fa, con Vito Ciancimino significava dialogare con un personaggio che sulla carta ben poteva aver rapporti con boss mafiosi cui bastava far schioccare le dita per seminare terrore, e non solo in Sicilia, come abbiamo visto».
Si pose, evidentemente, il problema dei riscontri delle sue dichiarazioni. 
«Ci sono innanzitutto i suoi verbali di interrogatorio del febbraio e del marzo 1993: fu dopo il suo arresto, il 19 dicembre 1992, che tramite i due carabinieri si convinse a parlare a Rebibbia anche con i magistrati della Procura palermitana. Il fatto diventò di dominio pubblico».
Fondamentale fu l’apporto del boss Angelo Siino…
«Siino era definito, negli anni Ottanta, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, incaricato di tenere i rapporti con le amministrazioni per le tangenti sugli appalti, e negli anni Novanta divenne uno dei principali collaboratori di giustizia: De Donno e Mori tentarono di farlo collaborare e Siino stesso ha testimoniato in tal senso, ricordando che a Rebibbia Vito Ciancimino, a sua volta, gli chiese di aiutarlo per infiltrarsi negli affari di Cosa Nostra e dar vita ad un sistema tangentizio senza “l’effetto Di Pietro” ».
Ciancimino era praticamente in possesso del passepartout per arrivare a Riina e Provenzano, allora?
«Non sembra proprio, non riuscì o non volle dare alcun contributo in merito, chiedeva aiuto a Siino.  In realtà, di Provenzano si diceva fosse morto da tempo, mentre la latitanza di Totò Riina era stata abbastanza comoda, perché non c’era nessuno che, praticamente, lo stesse cercando. Questo stato di cose durò sino alla tarda estate del 1992, quando gli uomini mandati da Mori, cioè il cap. Ultimo e i suoi militari,   catturarono Riina la mattina del 15 gennaio del 1993».
Non fu certo facile credere ai lunghi racconti di Ciancimino!
«I carabinieri ascoltavano le sue digressioni, diffidavano, ma erano costretti a stare al suo gioco, a credergli “sulla parola”, soprattutto per la difficoltà oggettiva di riscontrare subito quanto diceva. Anche Ciancimino diffidava dei due ufficiali che gli facevano credere di agire per conto dello Stato. Era una persona scaltra che aveva tutto l’interesse a portare acqua al suo mulino».
Emblematica la sua richiesta del passaporto!
«Accampò le scuse più fantasiose, con i due ufficiali a convincerlo a desistere, pena il dover render nota la riservata forma di collaborazione in atto, con i gravi rischi connessi compreso il fallimento dell’attività investigativa. Era il classico rischioso gioco delle parti»
Come termina questa frequentazione collaborativa?
«L’ultimo incontro a tre si tenne il 18 ottobre del 1992. Ciancimino non disse ai carabinieri nel precedente incontro del I° ottobre che era stato già mandato al diavolo dal suo interlocutore mafioso, il dott. Cinà che non volle sapere nulla dell’esser stato Ciancimino contattato dai Carabinieri, invitandolo, anzi, a farsi risolvere da loro i suoi problemi giudiziari. Il 18 ottobre Ciancimino giocò d’azzardo e comunicò di aver contattato esponenti mafiosi: fu allora che chiese cosa i due ufficiali avessero da offrirgli».
Una richiesta spiazzante, in pratica.
«Perché sia Mori che De Donno non pensavano che Ciancimino avesse effettivamente preso tali contatti - come sembrava, stando alle sue parole -, e offrirono la galera per i capi mafia. Ciancimino, che se avesse fatto conoscere una tale proposta sarebbe stato un uomo morto, si adirò mettendo alla porta i due ufficiali».  
Addirittura?
«Decise che non se ne faceva più nulla, pure perché tale proposta gli impediva oggettivamente qualunque possibilità di contatto vera o millantata con l’ “altra parte”, così come di continuare ad incontrare i carabinieri, sfruttandone il rapporto a suo vantaggio».
La collaborazione si interruppe, allora?
«Per poco: il 19 ottobre 1992 la sezione misure di prevenzione della Corte di Appello aveva confermato in larga parte la confisca dei beni e a novembre Ciancimino, per il quale i carabinieri del Ros erano diventati ossigeno vitale per evitare la galera con le altre pendenze giudiziarie, contattò nuovamente De Donno per comunicare questa volta la sua effettiva disponibilità ad andare sino in fondo, chiedendo allo stesso capitano la contropartita».
Cioè?
«De Donno, a quel punto, gli rivelò l’intenzione finale di questa collaborazione, ovvero la cattura del capo di Cosa Nostra, Totò Riina.  Ciancimino chiese le mappe delle utenze di un’area di Palermo dove poteva esserci una casa di qualche boss, per dimostrare che voleva davvero collaborare coi carabinieri».
Alla parte iniziale dei contatti, quindi, si può far risalire l’accusa formulata ai carabinieri.
«In un certo senso, ma non solo: l’accusa è di aver sollecitato richieste da parte dei vertici di Cosa nostra, attraverso Ciancimino stesso, agevolandone poi la conoscenza da parte del Governo. Quindi il reato di concorso nella minaccia aggravata ad un corpo politico dello Stato, si sarebbe concretizzato a cominciare da questa presunta sollecitazione».
In sintesi!
«Quali richieste avrebbero voluto vedersi esaudire questi personaggi di Cosa nostra per mettere fine immediatamente alla stagione delle stragi? Ipotesi accusatoria incomprensibile, fatta passare per una trattativa, per la quale Mori, Subranni e De Donno sono stati condannati in primo grado a pene pesanti».
Ma i carabinieri sapevano che Ciancimino avrebbero potuto portali fuori strada?
«Gli ufficiali del Ros agivano con prudenza, sapevano che si trattava di un millantatore che poteva cercare di volgere a suo vantaggio personale tali contatti. E si comportavano di conseguenza».
Intanto proseguiva l’attività sul campo.
«Mori coordinava l’indagine condotta dal capitano “Ultimo” che da un incontro a Terrasini con il maresciallo Lombardo, poi suicidatosi il 4 marzo del 1995 nella caserma Bonsignore di Palermo, ebbe la conferma di come la latitanza di Riina fosse favorita dalla famiglia Ganci».
Famiglia di alto rango criminale, se ricordiamo.  
«Raffaele Ganci, il boss della famiglia della Noce, sta scontando diversi ergastoli in regime di “carcere duro”, coinvolto in quasi tutti gli omicidi eccellenti di mafia, da dalla Chiesa a Falcone e Borsellino, tanto per capire lo spessore criminale della famiglia titolare di macellerie a Palermo, con legami forti nell’edilizia».
Come venne individuato il rifugio di Riina?
«Era una villetta all’interno di un ampio residence dove abitava con la famiglia sotto falso nome. L’attività investigativa cui i Ganci furono sottoposti porterà i militari del capitano “Ultimo” nei pressi della celebre via Bernini di Palermo il 7 ottobre 1992, per seguire Domenico, uno dei figli di Raffaele Ganci, in una strada che sembrava senza uscita. Un dato di cui presero atto».
 Intanto a Novara, l’otto gennaio venne arrestato Balduccio Di Maggio…
«Quella strada di Palermo e l’arresto a Borgomanero del boss di San Giuseppe Jato segnarono l’inizio della fine per Totò Riina: Di Maggio si dichiarò “uomo d’onore” pronto a collaborare, e venne trasferito in gran segreto a Palermo rivelando una serie di nomi di interesse investigativo».
L’assalto finale era imminente
«Saltò fuori il nome della famiglia Sansone intestataria, in via Bernini 54, di un’utenza telefonica come scoperto dagli uomini di “Ultimo”. Si trattava di un residence e proprio il capitano De Caprio strappò non senza difficoltà, dalla Procura, l’autorizzazione ad avviare video-riprese sul cancello di ingresso per il 14 gennaio 1993. La telecamera venne occultata in un furgone».
Immagini disvelatrici…
«Quelle video-riprese furono visionate la notte stessa dell’arrivo da Di Maggio che riconobbe una donna accompagnata su una Golf bianca, che usciva dal numero civico 54: era Antonietta Bagarella, la moglie del boss. Si trattava di un grande risultato informativo».
Cui seguì quello finale…
«La mattina presto fu riposizionato il furgone e all’interno, insieme ad uno degli uomini di Ultimo, prese posto anche Di Maggio per fargli riconoscere chi entrava ed usciva da quel cancello. Alle 8,30 riconobbe Salvatore Biondino entrare e uscire, poco dopo, con Riina. “Ultimo”, avvertito in codice per radio, seguì la Citroen verde coi due boss a bordo. Li bloccarono appositamente lontano da via Bernini».
Strano destino: ventotto anni dopo, Mori che aveva coordinato la cattura di Riina, è stato costretto a presentarsi insieme a De Donno e Subranni innanzi ad una Corte d’Assise d’Appello per difendersi da condanne pesanti.
«E del tutto ingiuste. Ma la formula assolutoria pronunciata ha restituito loro giustizia».
La Corte d’assise aveva emesso dure condanne in primo grado.
«Perché ignorando sentenze assolutorie passate in giudicato, aveva aderito al teorema accusatorio basato su questo singolare ragionamento: i carabinieri con quei contatti con Vito Ciancimino, avvenuti addirittura su input di Calogero Mannino, avrebbero sollecitato le richieste ricattatorie, di Cosa Nostra, ovvero di Vito Ciancimino, per il vero mai esplicitate».
Occorreva che il Governo avesse contezza della minaccia.
«La ricostruzione fu fantasiosa: la minaccia mafiosa sarebbe dovuta pervenire al Ministro Conso tramite il vicedirettore del Dap dott. Di Maggio. Da ciò il concorso nella minaccia a corpo politico dello Stato, individuato nel Governo. Poichè le richieste di Cosa nostra erano ricattatorie ed erano state sollecitate dai carabinieri del Ros che ne avevano per di più agevolato la conoscenza presso il Governo, questi ultimi avrebbero concorso logicamente alla minaccia. Da qui le pesanti condanne».
Ribaltate da qualche giorno dalla Corte d’Assise d’appello…
«Anche a voler prescindere dall’assoluzione del coimputato Mannino e dal fatto che mai hanno contribuito a portare al Governo minacce mafiose, quei contatti non possono integrare il fatto-reato per mancanza dell’elemento soggettivo, cioè del dolo, che in questo caso è pure specifico richiedendosi il fine di impedire o turbare l’attività del Governo».
Siamo all’abc del diritto penale.
«Occorre che ogni reato sia sempre composto almeno da un elemento materiale - l’azione o l’omissione - e da uno psicologico, il dolo, la colpa o la preterintenzione».
Una bella differenza!
«Nel nostro caso i carabinieri nei contatti con Vito Ciancimino, non avevano voluto sollecitare alcuna richiesta, ma si impegnarono in un’attività info-investigativa per combattere la mafia e catturare i boss di Cosa nostra allora latitanti, fino ad allora allora considerati imprendibili ed imbattibili».
Sembra tutto così semplice e scontato, oggi.
«Oggi noi non possiamo neanche lontanamente immaginare cosa fosse Palermo e la Sicilia a cavallo degli anni Ottanta e Novanta: Cosa Nostra controllava indisturbata il territorio e ne era padrona assoluta ed eliminava chi la ostacolava. Per combatterla occorrevano persone molto coraggiose. Un’altra epoca!»

Panorama.it                                                Egidio Lorito, 05/10/2021            

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