Il procuratore nazionale antimafia analizza il ruolo dei collaboratori di giustizia. E sostiene che la liberazione del famigerato boss di San Giuseppe Jato «è la vittoria dello Stato di diritto». 

«I collaboratori di giustizia costituiscono l'unico effettivo strumento per contrastare appieno le mafie. Senza i pentiti, molti risultati non sarebbero stati raggiunti». Federico Cafiero de Raho non ha dubbi. Dopo 25 anni di carcere, con 45 giorni di anticipo sul fine pena, il boss Giovanni Brusca è tornato libero. Tecnicamente la sua sarà, per quattro anni, una libertà vigilata e protetta in una località segreta. La notizia della scarcerazione ha sollevato, ovviamente, polemiche su polemiche, anche se il «fine pena» per l'ex boss siciliano sarebbe comunque arrivato il prossimo anno. 

Quindi, pur essendo difficile sorvolare sul curriculum criminale di Brusca, si è trattato della puntuale applicazione dei benefici previsti in favore dei cosiddetti collaboratori «affidabili». Dal calcolo delle condanne che complessivamente arrivavano a 26 anni, Brusca (arrestato il 20 maggio 1996 ad Agrigento) sarebbe stato comunque scarcerato nel 2022. E quel traguardo è stato accorciato per la «buona condotta» dopo che gli erano stati concessi alcuni giorni premio di libertà. In ogni caso, gli ultimi calcoli prevedevano la scarcerazione a ottobre. Napoletano, classe 1952, in magistratura dal 1977, pubblico ministero prima a Milano e poi nella sua città, Federico Cafiero de Raho ha coordinato numerosi procedimenti contro la camorra, riuscendo a catturare numerosi latitanti e coordinando, ad inizio degli anni Novanta, un pool di magistrati specializzati proprio sulle cosche della provincia di Caserta. Attività investigativa sfociata, in seguito, nel processo Spartacus, durato dal 1998 al 2010, nel quale de Raho rappresentò la pubblica accusa, facendo condannare centinaia di camorristi, tra i quali i boss Francesco Schiavone e Michele Zagaria. È stato Procuratore aggiunto di Napoli, prima di essere nominato procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, in prima fila contro le potenti famiglie della 'ndrangheta. L'8 novembre 2017 il plenum del Csm lo ha nominato, all'unanimità, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo.

Panorama.it ha raccolto la sua importante riflessione all'indomani della scarcerazione del sanguinario killer della mafia, mente organizzativa ed esecutiva del suo delitto più famoso, la strage di Capaci, dal reperimento dell'esplosivo fino alla deflagrazione dell'ordigno che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Procuratore, era prevedibile che la scarcerazione di Brusca avrebbe sollevato un vespaio di polemiche…

«Era prevedibile come sarebbe stata prevedibile la scarcerazione di un boss che dopo un lungo periodo di detenzione e di collaborazione, espiata la pena, torni in libertà. Certo, la posizione del Brusca si evidenzia per la specificità delle sue condotte, espressive di grande pericolosità».
E qui sta tutta la specificità di questo caso.
«È proprio in relazione a quelle condotte che egli ha collaborato e ha fornito il proprio contributo, il massimo contributo, in materia di stragi e di altri delitti gravissimi: tra questi, uno di quelli particolarmente ripugnante, quello del piccolo Giuseppe Di Matteo».
Si può parlare di vittoria dello Stato, dello Stato di diritto?
«Ogni qualvolta lo Stato, attraverso l'applicazione delle proprie leggi e il rispetto del principio dell'uguale trattamento di tutti davanti alla legge, è riuscito a raggiungere il risultato straordinario dell'individuazione dei responsabili dei gravi delitti di strage che hanno insanguinato il nostro Paese, sia a Palermo che a Roma, Firenze e Milano, lo Stato ha sostanzialmente applicato in pieno i criteri della giustizia che consente di sanzionare i responsabili delle più gravi condotte criminali».
A volte non è stato possibile rintracciare i responsabili di molte stragi…
«È vero, ma quando ciò è accaduto, applicando le regole e attraverso gli strumenti che vengono utilizzati per contrastare le mafie (collaboratori di giustizia, intercettazioni ambientali o telefoniche) quello stesso Stato ha conseguito il risultato e si può dire che si è manifestata una vittoria dello Stato e in questo senso dello Stato di diritto».
Obiettivo raggiunto senza ricorso a formule emergenziali e a regole straordinarie ed eccezionali.
«Semplicemente attraverso un sistema che è stato individuato, sin dall'epoca di Giovanni Falcone, come il migliore modo per contrastare le mafie. Non dimentichiamo che la legge sui collaboratori di giustizia vide la luce nel 1991, e quindi è addirittura precedente alle stragi di Capaci e di Via D'Amelio».
Lei ha sempre sottolineato che il nostro Paese ha maturato un'esperienza straordinaria nel contrasto alle mafie.
«Molto è stato fatto proprio da Giovanni Falcone: pensiamo ai suoi viaggi negli Stati Uniti anche per studiarne il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, pensiamo all'estradizione di Tommaso Buscetta. Fu prevista, in quel contesto, la nascita di una legislazione premiale che potesse fornire protezione a quanti avrebbero dimostrato, con la propria collaborazione, di aver rotto totalmente con l'ambiente mafioso di provenienza».
Regole maturate nell'emergenza.
«E poi perfezionate attraverso una serie di specificazioni che sono risultate necessarie alla luce di un'esperienza maturata nel tempo».
Comunque la scarcerazione di Brusca ha riaperto ferite tra i familiari delle vittime del fenomeno terroristico-mafioso, inutile negarlo!
«Non posso che essere vicino, condividendone appieno il dolore, alle vittime e sentirlo come propria sofferenza: quella che lo Stato tutto deve condividere con i familiari delle vittime dei reati di mafia e di terrorismo. Però è bene sottolineare che, in questo specifico caso, ci troviamo di fronte all'applicazione di determinate regole che valgono per tutti».
Dura lex, sed lex, verrebbe da ricordare.
«Laddove il corpo dei processi che hanno interessato Brusca sia arrivato a ritenere che quella fosse la pena da applicare, e nel momento in cui quella pena si stata definitivamente espiata, credo non si possa più tornare indietro, in quanto una sentenza definitiva non consente una rielaborazione in termini valutativi».
Vicenda contemperata dall'emotività, in ogni caso.
«Condivido il dolore patito dai familiari per le atrocità di determinati comportamenti, e registro la circostanza che ci sia stata una valutazione critica da più parti in queste ore: la comprendo come espressione di una emotività giustamente agganciata a chi ha subito la perdita di propri cari. Ma, al contempo, è evidente che la legge vada applicata e le sentenze vadano osservate anche quando determinino, dal punto di vista emotivo, conseguenze come quelle per la scarcerazione di Giovanni Brusca».
I collaboratori di giustizia sono uno strumento indispensabile...
«Le mafie si conoscono dal di dentro solo con l'apporto e il contributo di coloro che all'interno di esse hanno operato e che quindi sono in grado di fornire un quadro dell'operatività, dell'organizzazione e della loro stessa composizione a 360 gradi, cosa che nessun altro strumento può fare».
…che entra nella carne viva dell'organizzazione criminale.
«Le mafie sono tali perché dalle modalità comportamentali deriva assoggettamento e omertà, omertà e silenzio, silenzio e paura. Quegli stessi sentimenti che connotano, spesso, il comportamento delle vittime dei reati di mafia. Capita che non ci siano fonti dichiarative diverse proprio dai collaboratori di giustizia: ci rendiamo conto che è rarissimo che anche chi subisce un reato di estorsione denunci. Le stesse vittime dei reati di mafia non denunciano, non rendono dichiarazioni, pur subendo una continua e costante pressione mafiosa».
Conclusione?
«Questo ragionamento rende evidente come lo strumento dei collaboratori di giustizia sia insostituibile. Lo Stato ha optato per questa tipologia di intervento e si interviene utilizzando al meglio, anche grazie all'esperienza che magistrati e appartenenti alla polizia giudiziaria hanno acquisito, tanto i collaboratori di giustizia quanto le norme processuali che consentono il contrasto alle mafie».

Il caso Giovanni Brusca
Non certo una resa dello Stato, né tantomeno un ammorbidimento a causa del tempo trascorso da quando Giovanni Brusca commetteva efferati atti criminali. Soltanto l'applicazione dei benefici previsti in favore dei cosiddetti collaboratori «affidabili». Dal calcolo delle condanne che complessivamente arrivavano a 26 anni (il boss era stato arrestato il 20 maggio 1996 in via Papillon, nella contrada di Cannatello, una frazione balneare di Agrigento) risultava che Brusca sarebbe stato scarcerato nel 2022. Ma la pena si è ancora accorciata per la «buona condotta», dopo che gli erano stati concessi alcuni giorni premio di libertà. Gli ultimi calcoli prevedevano la scarcerazione a ottobre. È arrivata anche prima.
Il sanguinario boss, che si vantava di aver ucciso almeno 150 persone, è libero grazie alla legge sui collaboratori di giustizia, il Decreto legge numero 8 del 15 gennaio 1991, convertito nella legge numero 82 del 15 marzo 1991, che consente lo sconto di pena a quei mafiosi che, nel corso del tempo, decidono di fornire informazioni alla magistratura. Va evidenziato che quel complesso normativo permise che per la prima volta nel nostro Paese s'introducesse un sistema di protezione per collaboratori e testimoni di giustizia (due figure totalmente diverse), che fossero in grave pericolo per le proprie dichiarazioni rese agli inquirenti. La protezione fu estesa anche ai loro familiari e a tutti quei soggetti che rischiassero la vita a causa dei rapporti intrattenuti con i soggetti protetti. Quella normativa ha previsto anche il «programma speciale di protezione», contenente le misure tutorie, assistenziali e di recupero sociale straordinarie.
L'aspetto forse più drammatico e in un certo senso beffardo di questa normativa sta nella circostanza che essa fosse stata promulgata proprio grazie all'impegno di magistrati quali Antonino Scopelliti e Giovanni Falcone, che avrebbero pagato, appena pochi mesi dopo con la vita, la loro ben nota attività antimafia. Il primo cadde sotto i colpi di un'inedita alleanza mafia-'ndrangheta, il 9 agosto del 1991, a Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria. Il secondo, come ben noto, saltò in aria, insieme alla moglie Francesca Morvillo ed agli uomini della scorta, il 23 maggio del 1992, nel corso del celebre «attentatuni», preparato ed eseguito dallo stesso Brusca, nel corso del quale azionò il terribile innesco che scatenò la deflagrazione.

Panorama.it             Egidio Lorito, 04/06/2021



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