Lo studioso ricostruisce il salto di qualità compiuto dalla criminalità organizzata calabrese  

Il 1980 cominciò con due funerali. Il primo dell'anno scomparve Pietro Nenni, e segnò la fine del socialismo di antico stampo, quello della lotta per i diritti sociali sostenuta dalla potente arte oratoria del suo leader carismatico. Il secondo, tragico dono dell'Epifania, vide il barbaro omicidio, a Palermo, di Piersanti Mattarella, quarantacinquenne presidente della giunta regionale siciliana: lo colpirono mentre di mattina stava recandosi con i familiari a messa, ed iconica è rimasta l'immagine del fratello Sergio, all'epoca professore di Diritto parlamentare che lo sorreggeva, ormai cadavere, nell'abitacolo dell'automobile in cui fu freddato. «Tante cose succedono nel 1980. Eppure, in tutte le narrazioni storiche o nelle cronologie generali che raccontano, più o meno sinteticamente, i fatti accaduti in quell'anno c'è un vistoso buco: la Calabria». Cambiamento, sperimentazione ed anticipazione sono le caratteristiche che la criminalità calabrese, la 'ndrangheta, per intenderci, impresse alla propria linea evolutiva in quel 1980, mutando definitivamente i suoi caratteri genetici che l'avevano per alcuni decenni identificata con il mondo agricolo e pastorale. «Oramai la mafia calabrese, senza abbandonare la terra, trasferisce molti dei suoi interessi in città e nel campo dell'edilizia: ai reati tipici dell'era legata all'agricoltura si sono aggiunti il contrabbando delle sigarette estere, il traffico di droga, il sequestro di persona, l'aggressione alle coste e la penetrazione nel settore del turismo. Adesso è arrivato il tempo di fare un salto, avventurandosi nelle regioni del centro e del nord, valicando gli oceani, immergendosi nei marosi dell'economia ed affrontando in termini nuovi il rapporto con la politica».

Panorama.it ha bussato alla porta di Enzo Ciconte, fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose, tanto da essere stato il primo a pubblicare un libro storico sul tema, come " 'Ndrangheta dall'Unità ad oggi" (Laterza, 1992). Già docente all'Università di Roma Tre e all'Università degli Studi dell'Aquila, insegna, dal 2013, "Storia delle mafie italiane" presso il prestigioso Collegio S. Caterina dell'Università di Pavia: autore di trenta pubblicazioni, molte delle quali affrontano il meccanismo di penetrazione delle mafie al nord, è stato consulente presso la Commissione parlamentare antimafia a tempo pieno dal 1997 al 2012 e, prima ancora, deputato per il Pci, dal 1987 al 1992, nel collegio di Catanzaro. Professore, il 1980 è simbolico nella storia della criminalità calabrese.
«Alle elezioni comunali a Reggio Calabria, nel giugno di quell'anno, la 'ndrangheta reggina decise di entrare direttamente in politica, con la candidatura dell'avv. Giorgio De Stefano. E per lui faranno campagna elettorale il cugino Paolo De Stefano, l'uomo-forte della cosca reggina e il neo deputato Lodovico Ligato, eletto l'anno prima con oltre 87.00 voti».
Una saldatura di rilievo.
«La 'ndrangheta rappresentata dalla famiglia allora più potente di Reggio e la Democrazia cristiana cittadina scendono compatte per eleggere il proprio candidato».
A dieci anni dai celebri "moti di Reggio", la città non era affatto pacificata.
«Assolutamente no. Quella vicenda era stata un elemento di involuzione del tessuto connettivo reggino, con la 'ndrangheta che si rapportò in modo molto diverso con la politica: da una parte entrando in politica direttamente, dall'altro eliminando, fisicamente gli avversari».
Vennero al pettine molti nodi.
«La Calabria, e la provincia di Reggio in particolare, rimasero al palo con le promesse del famoso "pacchetto Colombo", che si dimostrarono un clamoroso fallimento di quel governo».
In che senso?
«Tranne che per la nascita dell'Università della Calabria, il progetto di aiuti governativi naufragò miseramente: dal V Centro siderurgico di Gioia Tauro, alla Liquichimica di Saline Joniche -nei progetti il più grande polo industriale d'Italia- sino alla Sir della famiglia Rovelli a Lamezia Terme, si andò nella direzione sbagliata».
La Calabria tradita dall'alto
«Lo sottolineo: il Governo nazionale consegnò alla Calabria le strutture industriali peggiori e tutte paradossalmente inquinanti».
Il fattore politico nazionale fu marcato.
«Certo. Il governo nazionale ebbe le sue responsabilità, accanto alla classe dirigente e politica calabrese: non si comprese che il destino e lo sviluppo della Calabria non avrebbero potuto essere quelle promesse, peraltro tradite».
La terra non dava più lavoro e quelle industrie rimasero cattedrali nel deserto.
«Un doppio fallimento, perché anche l'agricoltura rimase al palo, senza intervenire nelle zone interne che avevano bisogno della difesa del suolo e della rete infrastrutturale per evitare lo spopolamento».
E nelle crepe di quello Stato, la 'ndrangheta si insinuò facilmente.
«Purtroppo sì e ne avremmo avuto conferma esattamente cinque anni prima dei fatti legati al 1980: la 'ndrangheta aveva compiuto un salto formando la "Santa", entrando in contatto con la massoneria deviata e creando relazioni con personaggi in grado di interloquire con i vertici delle istituzioni e dell'economia nazionale ed internazionale».
Da criminalità pastorale al mercato della droga e dei sequestri di persona.
«In questo senso, il 1980 fu un vero spartiacque: abbandonato il traffico delle sigarette estere, le consorterie si lanciano sul terreno della droga globale e dello sviluppo edilizio sulle coste, molte "sfregiate" dalla speculazione».
I sequestri di persona furono una vetrina. A partire dal caso Paul Getty.
«Quello fu il primo e mediaticamente più importante episodio: eravamo nel 1973. Ma come dimenticare Angela Casella, "madre coraggio" che s'incatenò nelle piazze della locride per chiedere la liberazione del figlio Cesare, sequestrato il 18 gennaio del 1988 e liberato il 30 gennaio del 1990, dopo 743 giorni di prigionia?».
Lei sottolinea che la magistratura era nell'occhio del ciclone perché non riusciva a tranquillizzare l'opinione pubblica.
«Era debole, incapace di reagire o forse non voleva guardare ai fatti che avvenivano in quel periodo. Addirittura da più parti si negava l'esistenza della mafia calabrese, o si diceva addirittura che avesse un aspetto sociale positivo. E così la 'ndrangheta prese il largo a vele spiegate».
La politica regionale viveva lo scontro ideologico sui temi della criminalità organizzata.
«La polemica fu aspra, tra Pci e Dc a Reggio Calabria e tra Pci e Psi a Cosenza e Rosarno. Mi spiego: il Psi di Giacomo Mancini non comprese che la 'ndrangheta si fosse messa alla testa di un processo di sviluppo e di ammodernamento distorto, come quello del Tirreno cosentino legato anche alle cosche».
Polemiche forti…
«I socialisti polemizzarono, a loro volta, con il Pci sottolineando che la 'ndrangheta fosse il prodotto di un'economia arretrata e miserabile: non compresero, invece, che avesse cambiato passo, che si fosse modernizzata guardando all'economia forte della Calabria e del Nord del nostro paese».
E la 'ndrangheta scavalca la politica, candidando i suoi stessi uomini.
«Il fatto nuovo, nel 1980, fu l'ingresso massiccio di candidati espressione diretta delle famiglie, che non si accontentano più della delega a uomini della Dc o del Psi o a qualche esponente locale del Pci. L'ho definita frenesia elettorale».
Di recente lei ha rintracciato, perché finalmente desegretato, un documento a dir poco inquietante.
«Si tratta della relazione "Elementi di rilievo nella situazione generale della provincia" che l'allora prefetto di Reggio Calabria, Ciro Ciompi, inviò il 22 gennaio del 1980 al Ministro dell'Interno Virginio Rognoni».
Fa rabbrividire ancora oggi.
«In essa si legge che "la diffusione delle cosche in alcune zone è tale che è impossibile svolgervi una qualsiasi attività economica e persino fare politica senza venire a patti con esse" e che "vittime delle intimidazioni sono uomini politici, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell'ordine e funzionari"».
E il ministro cosa fece?
«Scrisse a sua volta al collega Tommaso Morlino, all'epoca a capo del dicastero di Grazia e Giustizia, per sollecitarlo ad affrontare, con la dovuta determinazione, le drammatiche emergenze della giustizia calabrese».
Rognoni fu categorico.
«Parlò di una certa "indulgenza della stessa magistratura" a proposito della raffica di assoluzioni in appello o di pene sin troppo lievi per personalità dalla forte caratura criminale».
Altri tempi, professore.
«Nel senso che ancora oggi, in Calabria, accadono altri scempi in tema di giustizia?».
Se le cito Giuseppe Valarioti?
«Era un trentenne professore di storia e filosofia di Rosarno, innamorato della sua terra: era diventato il segretario della locale sezione del Pci e si era meso in testa di rinnovare il suo partito e la sua cittadina, accanto agli operai, ai braccianti agricoli, agli studenti della Piana di Gioia».
E la criminalità locale lo uccise.
«La 'ndrangheta, esattamente: quella che faceva capo alla famiglia Pesce, che aveva individuato in lui il segno del rinnovamento e della ribellione contro il loro strapotere. Fu ucciso nel buio, la notte dell'11 giugno del 1980, con due colpi di lupara, dopo una cena per festeggiare la vittoria elettorale contro i soprusi di quella cosca».
E se le ricordo Giannino Losardo?
«54 anni, padre di due figli, dirigente comunista, assessore al Comune di Cetraro, sulla costa tirrenica cosentina -per un brevissimo periodo anche Sindaco- segretario capo della Procura di Paola, esempio illuminato di uomo di giustizia».
Il suo merito più grande?
«Aver individuato la presenza mafiosa in un territorio che tutti pensavano, in quel 1980, immune dalla criminalità».
E invece?
«La sera del 21 giugno di quel drammatico 1980, mentre si trovava alla guida della sua 126, di ritorno da un consiglio comunale a Cetraro, venne affiancato da una moto: gli spararono numerosi colpi di pistola, poi anche cinque ravvicinati. Ma non morì in quell'istante».
Ciò che accadde nelle ore successive è ancora un mistero.
«Infatti. Soccorso, venne trasportato prima al locale nosocomio, poi in quello più attrezzato di Paola, dove, ancora lucido, chiese con insistenza di parlare con un suo amico, l'avvocato Francesco Granata, all'epoca vice-procuratore onorario. Ed accadde un fatto rimasto inspiegato».
Professore, ne parli.
«In realtà ne parla il pubblico ministero barese Leonardo Rinella, nei motivi d'appello contro la sentenza della Corte di assise di Bari: "Forse Granata era stato l'unico destinatario delle paure di Losardo, delle confidenze dell'amico. Di qui l'invito di Losardo a Granata <>. Granata toglie l'accento al dì e trasforma questo testamento spirituale in una volgarissima richiesta affinché Granata faccia di tutto"».
Omicidio eccellente, a questo punto
«Losardo, come amministratore pubblico e uomo di giustizia, operava in un territorio della provincia di Cosenza ritenuto avulso da forme di criminalità. Invece denunciò la nascita di un agglomerato mafioso che interveniva sul settore del turismo e sul mercato del pesce, monopolizzandolo in modo criminale».
Il processo si tenne a Bari, spostato dalla Corte d'assise di Cosenza, per motivi di ordine pubblico.
«Mah, il motivo vero era che la magistratura di Cosenza non sarebbe stata nelle condizioni di istruire un processo in modo sereno, perché c'erano magistrati coinvolti: l'allora procuratore capo di Paola Luigi Balsano, rinviato a giudizio per abuso ed omissione di atti di ufficio, ed il suo vice Luigi Belvedere, accusato di interesse privato e falso ideologico atti di ufficio».
Una sorta di cortocircuito: lo Stato contro un'altra parte di sé.
«No! Lo Stato contro chi non si era dimostrato fedele allo Stato. Era il processo dello Stato italiano contro alcuni infedeli che non avevano onorato il loro giuramento di fedeltà».
E il processo come si concluse?
«Con l'assoluzione di boss e sicari del clan Muto dall'accusa di averlo ucciso. I sei ergastoli comminati furono per un altro omicidio. Ancora oggi Losardo non ha avuto giustizia».
Ai funerali intervennero Enrico Berlinguer, Pio La Torre, Stefano Rodotà, Francesco Martorelli, Achille Occhetto.
«L'omicidio di Losardo, appena dieci giorni dopo quello di Valarioti, scosse le coscienze della dirigenza nazionale del partito: la 'ndrangheta, cioè, forte del risultato negativo del Pci in Calabria, pensò di risolvere nel sangue alcune partite locali».
La mobilitazione del Pci fu enorme.
«Piero Ingrao, nel discorso commemorativo per Valarioti, affermò che quelli che piangevano in quei giorni non erano solo i compagni caduti per mano mafiosa. Quelle vittime appartenevano alla Calabria, perché poi sarebbe toccato anche alle altre forze politiche».
Fu profetico.
«Esatto. Il 27 agosto del 1989 a cadere sotto i colpi sarebbe stato proprio Lodovico Ligato, deputato Dc e presidente delle Ferrovie dello Stato. Il suo partito ed il Psi calabrese non vollero analizzare e leggere in profondità quegli omicidi e tirare le giuste conclusioni».
Troppi gli scheletri negli armadi?
«E' la mia riflessione di fondo, purtroppo. Una palla al piede che pesava in entrambi i partiti. Con una precisa responsabilità storico-politica, quella di non aver voluto rimuovere elementi criminali al loro interno».
La terribile vicenda di Giannino Losardo arriva sin dentro ai nostri giorni. Dopo l'ennesima inchiesta della Dda di Catanzaro, a Cetraro si è ripreso a sparare.
«A preoccupare è l'obiettivo di quegli spari: il comandante della Stazione dei Carabinieri. Un brutto episodio di intimidazione». 
Panorama.it                                                             Egidio Lorito, 23/03/2021

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