Errori giudiziari, tempi processuali dilatati, valutazione non serena e obiettiva, spettacolarizzazione mediatica. E poi ancora custodia cautelare, riforma della prescrizione e delle intercettazioni. Le problematiche che affliggono la giustizia penale nel nostro Paese sono sul tavolo del nuovo ministro Marta Cartabia.

«La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero». Fu oltremodo tranchant John Rawls quando, vergando l'introduzione della sua opera più celebre, A theory of justice (Una teoria della giustizia), concluse che verità e giustizia fossero le principali virtù delle attività umane. A 100 anni esatti dalla nascita, Rawls è ricordato tra i massimi filosofi politici del ventesimo secolo e il suo è «considerato, fin dal suo apparire, come il più importante libro di filosofia politica in lingua inglese dopo il Leviatano di Hobbes», come ricorda il filosofo-politico Sebastiano Maffettone, curatore dell'edizione italiana nel 1982. Professore alla Harvard University, elaborò nel 1971 l'idea normativa di una giustizia come equità («as fairness»), cioè di una categoria che si ponesse come criterio fondamentale per l'organizzazione delle istituzioni politiche. Ovvero: la giustizia è realmente un'esigenza morale non condizionabile da non poter essere sostituita da altre esigenze.Panorama.it ha chiesto lumi ad autorevoli giuristi per capire meglio dove si nascondano i dilemmi della giustizia penale.

«Un Paese come l'Italia è caratterizzato da un grande paradosso: la magistratura penale, se da un lato ha acquisito indiscutibili meriti nel contrastare gravissimi fenomeni criminali come il terrorismo politico, la corruzione e le mafie, continua - per altro verso - a mostrare una cattiva immagine di sé». Va dritto al cuore del problema Giovanni Fiandaca: professore emerito di Diritto penale nell'Università di Palermo, già componente laico del Csm e co-autore di un manuale di Diritto penale che ha formato generazioni di giuristi, sottolinea come «sempre più numerose siano quelle vicende nelle quali il sistema-giustizia funziona male, e finisce col produrre più danni sociali». Al fondo della sua riflessione c'è una vicenda processuale e umana esemplare: quella di Giuseppe Caterini, sindaco del comune calabrese di Laino Borgo, nel cosentino, basata su un'imputazione di concussione alquanto fragile nei presupposti giuridici, esemplificativa di un'esperienza kafkiana. Un caso di scuola, di quelli che non sfigurerebbero certo nel suo celebre manuale: «Soprattutto quando persone avanti negli anni vengono ristrette agli arresti domiciliari senza neanche essere state preventivamente interrogate dall'autorità giudiziaria; per non parlare di un dibattimento in cui è mancato l'importante approfondimento giuridico che avrebbe escluso la responsabilità penale dell'imputato». Una vicenda toccante, culminata «con il sindaco-geometra-poeta che venne arrestato, si ammalò gravemente nel corso del processo e morì esattamente sette anni dopo, senza neanche riuscire a conoscere l'esito dell'appello». 
La magistratura sembra avere pesanti responsabilità...  Risponde il professore: «Inefficienza e lentezza della macchina giudiziaria, insufficiente ponderatezza e affrettata superficialità con le quali vengono avviate e condotte non poche indagini, non infrequente mancanza di adeguata preparazione tecnico-giuridica, tentazione di alcuni magistrati di svolgere funzioni di indebita supplenza politica, o di assumere ruoli populistico-giudiziari». Fiandaca solleva poi un sospetto: «Si finisce con l'utilizzare impropriamente il diritto penale come uno strumento di moralizzazione collettiva o di censura etico-politica da rivolgere in particolare alle varie tipologie di colletti bianchi, ovvero uomini politici, imprenditori, esponenti delle professioni e più in generale dei ceti dirigenti». 

Gli fa eco Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale a La Sapienza di Roma e dal 2002 al 2006 membro laico dell'organo di autogoverno dei giudici, per il quale «il processo penale è una cosa dolorosa, sotto vari profili; un processo penale nei confronti di un innocente lo è ancora di più». L'accademico friulano sostiene che «il pubblico ministero sia portato ad enfatizzare i risultati delle indagini della polizia giudiziaria per rafforzare i propri poteri, tra misure cautelari, intercettazioni, prescrizione, doppio binario, carcere duro». Per non parlare delle distorsioni mediatiche cui un procedimento penale va spesso incontro: «È il problema dell'informazione, come se questa fosse costruita nell'ufficio del Pm, senza essere adeguatamente controllata e sindacata da un giudice» osserva Spangher. «Si voleva un giudice per le indagini preliminari non forte, né debole, ma autorevole. Questo giudice non ha poteri probatori, perché gli presentano quello che Pm e polizia giudiziaria gli prospettano». 
Ma così si crea un corto circuito tra opinione pubblica e politica? «Alimentato dai media, e fino a quando non riusciremo a spezzarlo culturalmente, avremo problemi! È necessario migliorare tutti: avvocatura, magistratura, accademia» è la risposta del professor Spangher. In realtà si parte da un presupposto errato, che il processo penale tocchi gli altri, mai sé stessi, e invece «dobbiamo realizzare che possa riguardare chiunque e che sia una bestia soprattutto per chi è innocente, perché almeno il colpevole ha una ragione per capire che è sottoposto a processo penale; l'innocente non riesce a capire e ne subisce gli effetti nella famiglia, negli affetti, nella società».
Spangher inquadra anche il tema dell'obbligatorietà dell'azione penale, cardine del nostro ordinamento: «Il problema è capire se questo principio, sicuramente giusto perché garantisce l'uguaglianza dei cittadini, non rischi di diventare un alibi che permetta all'accusa, nel corso delle indagini preliminari, di fare e disfare quello che vuole. E questo è un fatto molto grave». E con le intercettazioni, vero "casus belli" degli ultimi mesi? «Ma ci rendiamo conto che neanche una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione sull'utilizzazione delle intercettazioni nel procedimento sia stata in grado di arginare una modifica normativa voluta dai pubblici ministeri e dall'allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, diventato poi senatore?». Il captatore informatico, il celebre trojan «è il protagonista assoluto delle inchieste che hanno affollato le pagine dei quotidiani in questi ultimi mesi: occorre la più puntuale regolamentazione per impedire che si trasformi da alleato degli inquirenti in mezzo tecnologico di controllo massivo». 
Sull'attuale impostazione del nostro diritto penale, è molto critico Sergio Moccia: professore emerito di Diritto penale nell'Università Federico II di Napoli, allievo di Dario Santamaria nella città partenopea e di Claus Roxin a Monaco di Baviera, è stato componente della commissione di studio per la riforma del codice penale e presidente dell'associazione dei professori di diritto penale. Da anni rileva «come proprio dall'ideologia socio-politica siano immediatamente influenzate le scelte fondamentali di politica criminale». E sostiene come «la politica criminale, ramo della politica generale che si occupa dei delitti e delle pene, in realtà si colori dell'orientamento di chi è legittimato ad adottare le relative decisioni, una sorta di cartina di tornasole molto efficace per capire quali siano gli orientamenti reali, al di là di denominazioni di origine controllata: può trattarsi di una politica criminale autoritaria oppure conforme allo stato sociale di diritto». 
E quando Panorama gli chiede se il sistema del diritto penale necessiti la più opportuna aderenza possibile alla realtà, Moccia evidenzia come «il diritto penale non nasce e non si sviluppa in uno spazio tecnico isolato, ma tra origine da rapporti esistenziali sulla base di dati della realtà fenomenica. E tra questi, indubitabilmente, un ruolo fondamentale è svolto dall'ideologia in quanto progetto programmatico di conformazione socio-politica». Tra le emergenze spicca il sovraffollamento carcerario: «Se si tiene conto che le quote di carcerazione sia preventiva che definitiva rappresentano all'incirca il 70% del totale, si capisce come in realtà il problema vada risolto al di fuori del diritto penale, perché se quest'ultimo avesse funzionato, non avremmo avuto quelle cifre di carcerazione». E come la mettiamo con l'errore giudiziario? «Fa parte della fallibilità dell'essere umano» risponde. «Il magistrato, però, ha un dovere di attenzione maggiore rispetto agli altri consociati, almeno in materia penale, perché decide di libertà, dignità, personalità individuale». Aberrazioni del sistema-giustizia, squilibrio tra i poteri dello Stato, foga maniacale di sbattere il mostro in prima pagina? «The law is what the judge ate for breakfast» (la giustizia è ciò che il giudice ha mangiato a colazione, nda), sentenziò Jerome Frank filosofo e giudice federale statunitense della Corte d'Appello, a proposito del processo mentale attraverso il quale si formano le decisioni giudiziali. Una considerazione che vale anche alle latitudini italiche?
Panorama.it                                                             Egidio Lorito, 19/03/2021 

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