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Il focus del sociologo Leccese nel suo libro sulle “Maffie”

Ho incontrato e conosciuto  Andrea Leccese la scorsa estate a Scalea, nel corso di una serata dedicata al suo ultimo saggio che mi era stato chiesto -ringrazio ancora gli organizzatori dell’incontro…-  di presentare. Il tema rientra tra quelli che più attirano l’attenzione della platea, anche in clima estivo, perché quando si discorre di fenomeno mafioso, di legami con le istituzioni, di contrasto da parte dello Stato e di quant’altro, credo non si possa -debba?-  rimanere in neutra attesa.  Incuriosisce subito il titolo con un raddoppio consonantico -maffia- che merita un approfondimento preliminare, non senza sorprese, quasi a spiazzare chi da sempre accoppia termine e genesi geografica. Un centinaio di pagine dall’approccio agevole compongono questo instant book, dedicato “agli italiani onesti”, nel quale trovano il dovuto spazio molti dei protagonisti dell’oramai pluridecennale lotta alla criminalità di stampo associativo.     

 Allora, Leccese, ce la spiega questo termine che campeggia, rosso-sangue, nel titolo?
“Mafia -con una effe- è purtroppo la parola italiana più famosa al mondo e fino al dopoguerra si pronunciava con due “effe”, “Maffia”:  si trattava di un antico vocabolo toscano che significava ostentazione e boria. Si badi: un termine toscano, non siciliano, come siamo sostanzialmente tenuti a pensare, ed infatti la prima falsa credenza da confutare, con una certa dose di ironia, è proprio quella che vuole la mafia come un fenomeno prettamente meridionale, sia nell’origine che nella connotazione nominale. Diciamola tutta: le false credenze sul fenomeno mafioso sono ancora numerose ed occorre cercare di fare chiarezza proprio su un tema così urticante. Il mafioso può anche non essere siciliano (o campano, calabrese, pugliese) e può persino non avere la coppola, i baffi e la lupara, come la cronaca di questi giorni mostra amaramente”.
Allora, da meridionali tiriamo il classico sospiro di sollievo?
“Macchè! La storia giudiziaria dell’ultimo trentennio -e segnatamente per il fenomeno ‘ndranghetistico, quella praticamente contemporanea- ci restituisce l’idea e l’immagine di come la delinquenza organizzata di stampo mafioso possa attecchire ovunque. E ciò, partendo da un dato economico piuttosto semplice da analizzare e divenuto quasi incontrovertibile: ovvero, perché è la nostra stessa società del consumo che offre l’humus culturale più favorevole a questo male a cavallo di due secoli, che diventano poi tre se risaliamo alla fine dell’Ottocento con i primi casi associativi in Calabria ed in Sicilia. Le più accreditate analisi storico-economiche, infatti, datano nella seconda metà del XIX l’origine del fenomeno criminale associativo, come -sempre  per rimanere in Calabria- fanno rilevare i puntuali e ben inquadrati saggi di Nicola Gratteri ed Antonio Nicaso dedicati alle origini storiche del fenomeno”.              
Di errore in errore. Così facendo si è concesso un indubbio vantaggio a questo fenomeno criminale, con le diverse sfumature di cui si è ammantato.  
“Infatti! L’errore che andava evitato era quello di considerare la mafia soltanto come un problema di ordine pubblico, trascurando la sua preponderante dimensione economica, spesso globalizzata:  del resto, il mafioso altro non è che un imprenditore -il più spregiudicato degli imprenditori- dotato di un potere economico e, in ultima analisi, politico. Fare luce sulla dimensione economica del fenomeno mafioso non è assolutamente uno sterile esercizio intellettuale, una semplice analisi accademica o un passaggio quasi dovuto per completezza espositiva. Rappresenta, invece, il rimedio per individuare le soluzioni più efficaci ad uno dei problemi di maggior impatto sociale del nostro tempo. Senza ragionare in questa prospettiva, non sarà facile tenere testa all’attacco che viene portato continuamente allo Stato”.    
Andrea Leccese è nato a San Severo, nel foggiano,  nel 1976, e  vive a Bari: attento osservatore della società politica meridionale, grazie ad un solido bagaglio culturale che spazia dal giuridico all’economico al politico, riesce a condurre analisi puntuali non solo sui fenomeni criminali propriamente detti che attanagliano soprattutto il Mezzogiorno d’Italia, quanto sul perverso intreccio tra potere criminale ed economico che pare sia una costante delle più accreditate analisi contemporanee. Tra le sue pubblicazioni, Torniamo alla Costituzione! (Infinito, 2009), Innocenti evasori (Armando, 2012), Inciucio forever (Armando, 2014).
Torniamo un attimo al 2009: Premio Nazionale “Paolo Borsellino”…
“Questo premio dalla chiara matrice socio-culturale ha una genesi di prim’ordine:  nacque il 3 dicembre 1992 per volontà del giudice Antonino Caponnetto che, invitato a Teramo dalla associazione “Società Civile” per un incontro con gli studenti, dedicò la targa consegnatagli da Rita Borsellino al fratello Paolo ucciso pochi mesi prima nel corso del terrificante attentato di via D’Amelio:  il Premio, come l’associazione “Società Civile” che l’organizza,  nasce con l’intento di sollecitare la società civile alla lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia attraverso le istituzioni comunali, i gruppi sociali, le scuole, le realtà di base, tutte territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. In pratica, l’obiettivo viene puntato sull’educazione alla legalità democratica e l’impegno contro la corruzione, due concrete direttrici  per le quali l’associazione stessa ha richiesto lo status di promozione sociale al Ministero della Solidarietà  Sociale. Insomma, un riconoscimento di grande profilo sociale e civico”. Con “Maffia &Co. Riflessioni sul capitalismo criminale” (Armando Editore, 2016) l’autore compie una serrata analisi sulla genesi del fenomeno mafioso, non tanto ricostruendo processi e casi eclatanti che riempiono le cronache quotidiane, quanto cercando di ricostruirne le basi economiche, sociali e morali. Storiche, in pratica.
Siamo costretti a risalire così nel tempo e nell’analisi sociologica?        
“A centouno anni dalla nascita di Edward Banfield -prestigioso politologo e sociologo statunitense, noto in Italia per aver curato il celebre saggio <<Le basi morali di una società arretrata>>, in cui introdusse la nozione del c.d. familismo amorale- non posso non cogliere il possibile legame tra la delinquenza mafiosa e quella forma di familismo tipico di certa società meridionale. Lo sostenne, a chiare lettere, lo stesso compianto Prefetto Luigi De Sena, nel 2006, all’interno di una sua celebre relazione dal titolo “Lo spazio sicurezza, libertà e giustizia nella regione Calabria”, in cui faceva notare come il fenomeno mafioso noto con il nome di ‘ndrangheta fosse favorito, nella splendida terra di Calabria, proprio da quella mentalità pubblica dominante che da mezzo secolo prende il nome di familismo amorale, appunto. Che, con le stesse parole di Banfield, sta a significare l’incapacità degli abitanti di agire per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse materiale immediato della famiglia nucleare.  Certo, l’illustre sociologo precisò che il fenomeno non fosse propriamente meridionale, riferendosi ad osservazioni effettuate, ad esempio, tra contadini della provincia di Rovigo che mostrarono una analoga tendenza a vedere ogni situazione in termini di famiglia: ma, purtroppo per noi, il fenomeno si sarebbe cristallizzato soprattutto nelle società meridionali”.   La prefazione al testo è del senatore Mario Michele Giarrusso, membro della Commissione parlamentare antimafia  -“se qualcuno dovesse chiedermi qual è il pallino della mia attività politica, tra quelli che più mi sono a cuore, di certo direi l’azione di contrasto al voto di scambio”-  mentre l’appendice reca un’intervista alla criminologa Imma Giuliani che focalizza l’attenzione, tra l’altro, sulle prime crepe  che pare si stiano aprendo anche tra i più duri clan siciliani.  
Sinceramente: serve ancora scrivere di mafia?
“A domanda secca, pari risposta! Assolutamente sì. Il mio è un tentativo di fare chiarezza espositiva su un tema troppo spesso maneggiato con colpevole superficialità: l’ho fatto con un linguaggio particolarmente adatto ai giovani, ai quali  ci si può rivolgere per evidenziare temi così complessi anche utilizzando una canzone di Vasco Rossi. Si contribuisce a fare luce su un “antistato” che contende al potere legittimo il controllo del territorio. Di quello in cui vivono gli stessi giovani cui mi rivolgo…” 
Cronache delle Calabrie, pag. 30                    Egidio Lorito,  02/03/2017

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