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Nel libro “Comprati e venduti” di Claudio Fava le storie dei cronisti in pericolo per aver scritto della ‘ndrangheta

“Non esiste luogo d’Europa in cui siano stati uccisi tanti giornalisti come in Sicilia. Otto in poco meno di vent’anni: tutti per mano mafiosa. Eppure non esiste nazione  civile in cui la memoria dei giornalisti ammazzati sia stata così sfigurata come in Italia. Fino a pochi anni fa, se cercavate quegli otto nomi nella cronaca della commemorazione, alcuni di loro non figuravano mai. Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Beppe Alfano. Storie limpide, schiene dritte. Caduti da giornalisti per ciò che avevano scritto e raccontato: ma senza il tesserino rosso dell’Ordine in tasca. Dunque abusivi, in vita e in morte. Tranne per coloro che li uccisero (…)”.

Claudio Fava non aveva ancora 27 anni quando la mafia gli assassinò il padre, il giornalista Giuseppe Fava, detto Beppe,  personaggio carismatico, amato dai propri collaboratori per la professionalità nell’affrontare il mondo del giornalismo e della cronaca in particolare, mai disgiunto da quel singolare e semplice modo di vivere. Era stato direttore responsabile del “Giornale del Sud” e fondatore de “I Siciliani”, importante giornale antimafia in Sicilia: il film “Palermo or Wolfsburg”, del quale aveva curato la sceneggiatura, nel 1980 si era aggiudicato l’“Orso d’Oro” al Festival di Berlino. E dalla data della sua uccisione, ad opera di esponenti del clan mafioso Santapaola-Ercolano, era divenuto un vero simbolo della lotta alla mafia (come fenomeno socio-culturale, oltre che criminale…) e della stessa cronaca giudiziaria, con tanto di stile di vita e di professione a far da contorno. Ed era stato, anche, il secondo intellettuale ad essere ucciso da Cosa Nostra dopo Giuseppe Impastato, caduto il  9 maggio 1978, stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, a Roma…
Giovanni Giuseppe Claudio è sceneggiatore (per il cinema, I cento passi;  per la televisione: Il capo dei capi; Enrico Mattei; Il clan dei camorristi; Non è mai troppo tardi; Le mani dentro la città.) e saggista (tra gli altri, Sud. L’Italia dimenticata dagli italiani) e romanziere (tra gli altri, Nel nome del padre); ha condotto un’intensa attività politica dai tempi della prima elezione ne “La Rete” sino alla carica di coordinatore nazionale del movimento “Sinistra Democratica”; europarlamentare e più volte candidato nella sua terra, sino alle recenti esperienze nel gruppo parlamentare di “Sinistra Italiana”. Ma è, soprattutto, giornalista, nel senso più profondo e verace del temine, non foss’altro che c’era comunque da inseguire un sogno, da perpetuare un ricordo e, forse, anche da proteggersi da uno spettro che continua ad aggirarsi nella sua vita da quel 5 gennaio del 1984.
Ora Fava scrive non solo per ricordare chi non c’è più e per omaggiare la memoria di chi è caduto proprio nell’esercizio di una sorta di missione “pro-veritate”; ora scrive anche per chi è ancora in vita! “(…) Quando mi è stata affidata dalla Commissione Antimafia la Relazione sul rapporto tra mafie e informazione, ho pensato che fosse innanzitutto lo strumento per dedicarsi ai vivi. Non solo per raccontare la vita grama di troppi giovani cronisti minacciati, vessati, mandati in prima linea senza nemmeno la consolazione di un contratto in tasca. Mi è sembrato piuttosto l’occasione per affrontare lo sguardo sulle cose tristi e opache di questi anni; sui giornali utilizzati come ramazza per parlare d’altro; su quei direttori, quegli editori, quegli inviati che hanno scelto di tacere per convenienza, per i fiumi d’incenso delle carriere, per i generosi affari che certe amicizie garantivano (…)”.
Ovviamente c’è molta Sicilia nelle pagine di Fava e non poteva essere altrimenti per le storie autobiografiche che saltano dalle pagine del racconto, dalle stesse righe che, una dopo l’altra, si fanno leggere ghiotte, con quella stessa avidità culturale che si coglie ogni qual volta il nome di un giornalista, soprattutto se morto sul campo, balza fuori all’improvviso: come quello di Peppino Impastato,  con la sua quasi irreale vicenda, scomodo da morto come lo era stato in vita, fatto letteralmente saltare in aria, con una cintura di candelotti di dinamite legatigli al petto, sui binari della ferrovia Palermo-Trapani: “(…) fate sapere com’è morto, fate sapere che è morto perché sapeva raccontare le cose, perché faceva la radio, la faceva così bene che l’hanno scannato come un animale. Non si può, le mandano a dire: Peppino non era un giornalista. Un abusivo era. Senza tesserino, senza editore, senza carte in regola. Non fa parte dei loro morti (…)”. Tra l’invocazione della madre Felicia e il drammatico realismo di Fava c’è l’intero ciclo vita-morte di un narratore tolto di mezzo perché evidentemente scomodo nel raccontare. E solo, maledettamente solo come molti cronisti…  “(…) Prima o poi dovremo raccontare la solitudine che gli ammazzati si sono portati dietro come un sudario, pure dopo morti, ma qui vogliamo anche parlare dei vivi (…) i soldati semplici sparsi come il seme buono lungo tutte le periferie, in ogni città, in ogni contrada in cui ci siano storie infami che aspettano solo di essere svelate e raccontate (…). Raccontare, dunque. Ascoltare per raccontare sembra essere, oggi più che mai, la missione che Fava, anche alla luce del ruolo affidatogli dalla Commissione antimafia, incarna proprio per dare voce ai vivi, quasi per contribuire a far sì che tali rimangano soprattutto quei colleghi esposti senza protezioni di sorta. “(…) Durante l’audizione, uno di loro, Lucio Musolino, trent’anni scarsi, raccontò della bottiglia di benzina trovata accanto alla sua automobile con un biglietto di puntigliosa precisazione: <<Questa non è per la macchina. Questa è per te>>. Abbiamo ascoltato un altro, Michele Albanese, che (…) una volta scrisse quello che tutti sapevano e tacevano ovvero degli inchini della Vergine Maria sotto il balcone del capomafia, quando c’è la festa del villaggio e la Madonna viene portata in processione per i vicoli del paese, fino a quella casa (…). Di quella riverenza al mafioso si sapeva da sempre (…) il cronista la raccontò. E non successe nulla, nel senso che il mafiosazzo tenne le persiane accostate, non profferì parola, non minacciò nessuno. Ci pensarono il prete e il sindaco (…). Prendete Giovanni Tizian. <<A quello domani gli dobbiamo sparare in bocca>> si sente in un’intercettazione telefonica nel corso di un’inchiesta sul gioco d’azzardo. Tizian è un calabrese emigrato al nord che la Calabria se l’è ritrovata anche a Modena. Emilia Romagna. A pochi chilometri da Brescello, siamo in Emilia, mica in Calabria (…)”. Ci sono tutti i nomi di questi giornalisti scomodi che hanno dovuto accettare una scorta per continuare a scrivere e a vivere. Ci sono i nomi delle più pericolose famiglie di mafia e di ‘ndrangheta, spesso portate sul banco degli imputati proprio grazie a coraggiose giornaliste, come nel caso di Ester Càstano e delle sue corrispondenze da Sedriano, nel milanese. E chissà quanti lettori ci saranno, un giorno come un altro, a sostenerli questi giornalisti. Ultimo appunto: Sedriano è stato sciolto il 15 ottobre del 2013. Anche Brescello, il 19 aprile scorso: entrambi per ‘ndrangheta, ovviamente. E Michele Albanese è stato appena nominato, dal Presidente Mattarella, “Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana” <<per aver affermato il valore della legalità e della libera informazione in un contesto con forte presenza criminale” come la Piana di Gioia Tauro.
Coincidenze…

Per saperne di più: Claudio Fava, Comprati e venduti. Storie di giornalisti, editori, padrini, padroni, Add Editore, Torino, 2016, pp. 93, € 12.00

Cronache delle Calabrie, p. 28                                 Egidio Lorito, 09/12/2016

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