A tu per tu con...

Suo padre è stato un simbolo per un’intera generazione, quella che vedeva in questo baffuto milanese l’incarnazione del moderno eroe, novello Ulisse, capace di sfidare la natura e le sue forze pur di spingere l’uomo alla ricerca dei suoi limiti. E quando il 24 agosto del 2005, Ambrogio Fogar si è spento, con questo grande eroe moderno, tutti abbiamo perso una piccola parte di noi, fatta di emozioni, ricordi, limiti interiori ed esteriori da superare, di sogni. Sogni che per Ambrogio significavano distese giacciate e cani-slitta -il mitico Armaduk- vette imbiancate e discese a valle, mari sconfinati e zattere alla deriva.

Chi di noi non lo ricorda sul piccolo schermo in quella trasmissione-culto -“Jonathan: dimensione avventura”- alle prese con quel suo mondo fantastico, pronto a sfidare tutto l’estremo possibile, compreso l’orizzonte infuocato e sabbioso del deserto. Già il deserto: il 12 settembre del 1992, durante il raid Parigi-Mosca, il suo automezzo si capovolge e restituisce Ambrogio con la seconda vertebra cervicale spezzata ed il midollo spinale tranciato. Epilogo drammatico: immobilità assoluta e permanente, aggravata dall’impossibilità di respirare autonomamente. Quell’uomo, fino a quel momento praticamente imbattibile, che aveva messo piede negli angoli più sperduti del mondo, che aveva navigato in solitaria contro le correnti ed il senso dei venti, che aveva raggiunto in solitaria il Polo Nord, che si era spinto laddove traccia umana non era mai arrivata, quell’uomo -ora- avrebbe passato i successivi tredici anni come forse mai avrebbe immaginato: come noi mai avremmo pensato. C’è stato, nella parabola umana di Ambrogio Fogar, qualcosa di molto più profondo, che va ben al di là della semplice avventura al limite della sopravvivenza, del rischio da missione impossibile, della voglia tutta umana di superare ogni limite e di superarsi. Questo qualcosa in più, sarebbe venuto fuori proprio all’indomani di quel tragico incidente che, per la terribile gravità delle conseguenze, avrebbe annientato qualunque altro essere umano. Evidentemente non Fogar: perchè questo qualcosa in più lo ha aiutato a lottare, anzi lo ha tenuto in vita per 13 lunghi anni, passati non come un vegetale, non come corpo senz’anima disteso su un letto: perchè l’avventura più dura di Ambrogio Fogar è iniziata quel 12 settembre del 1992, per durare quasi tredici anni… Ed ancor oggi mi risuonano forti le sue parole che, meglio di ogni altro commento, chiariscono il senso di quel qualcosa in più: “ voglio spiegarvi perché un tetraplegico come me, un uomo tagliato fuori dalla vita, decide di provare a tornare a navigare sui suoi oceani. Per capire, non basta pensare alla voglia dell’aria salmastra che invade il volto e il corpo: il vero motivo di questo viaggio è la voglia di tornare a vivere slegato dalle quattro mura che ormai da due anni e mezzo mi incapsulano…”. Era il maggio del 1995 ed il nostro moderno eroe raccontava la sua ultima avventura: ovvero ripetere la circumnavigazione del globo a bordo di una barca a vela attrezzata, allo scopo di raccogliere fondi per la ricerca sui problemi legati al midollo spinale… Francesca è una bella ragazza di quasi trentuno anni (li compirà il prossimo 17 novembre), nata quando il padre aveva già portato a termine -in solitaria- il giro del mondo in barca a vela: il suo sguardo rimanda immediatamente a quell’inconfondibile viso, la sua voce rimanda ad un non so che di determinazione e di forza interiore, anche nel modo di chiamare il padre : “dopo la scomparsa di Ambrogio, forse quasi per una forma di elaborazione del lutto, ho messo mano -con l’aiuto della giornalista Marta Chiavari- ad una serie di riflessioni approdate quest’anno in <> (Aliberti 2006), che ripercorre non solo la vicenda avventurosa di mio padre, fatta di spedizioni, imprese al limite della sopravvivenza e record, quanto -soprattutto- gli aspetti più intimi della sua vita: un libro-intervista che racconta il suo lato umano e meno conosciuto, i suoi aspetti personali, quel carattere goliardico supportato da una fantasia senza limiti, un po’ come il suo mondo, che di limiti, proprio non ne aveva; ed in quel suo mondo entravamo noi di famiglia: mia madre, sua madre, io, destinatarie delle tante lettere che ci inviava dalle parti più disparate del mondo, quando si confidava sulle reali possibilità di riuscita di un’impresa. Ed ancora, i tanti interrogativi, la sua spiritualità, l’eredità che ci ha lasciato.” Francesca racconta e si racconta, ed in questo alza il velo sul mondo interiore di suo padre, senza neanche tralasciare l’ultimo dialogo con lui, al ritorno dalla Cina, dove Fogar si era recato per tentare la via del trapianto con cellule fetali. Un mondo fatto di uno straordinario dialogo che il padre aveva contribuito ad alimentare con scritti e pubblicazioni, come con le singolari cartoline spedite dai luoghi più improbabili del pianeta: per non parlare -appunto- delle struggenti lettere scritte alla moglie ed alla madre durante gli interminabili giorni del naufragio del 1978 quando, a bordo del “Surprise”, tentando di circumnavigare l’Antartide, subisce l’attacco di un branco di orche che ne provoca il naufragio al largo delle Isole Falkland. Settantaquattro infiniti giorni vissuti a stretto contatto con l’amico-giornalista Mauro Mancini che alla fine perderà la vita. Questo, l’universo, che il libro -mai titolo fu più emblematico- ora ci restituisce. Francesca, il nome Fogar ritorna magicamente in televisione…: “sono autrice televisiva e da un paio d’anni lavoro nella redazione giornalistica di “Matrix”, il programma di attualità condotto da Enrico Mentana: ma oggi il lavoro in televisione sta assumendo una connotazione ancora più simbolica, visto che ho iniziato ad occuparmi della riedizione -proposta a Mediaset tempo fa- di <> la trasmissione ideata e condotta da mio padre che andò in onda sulle reti Fininvest per sette anni tra il 1984 ed il 1990: l’obiettivo della nuova serie è di creare un collegamento tra la vecchia edizione -costruita attorno a quel datato mondo dell’avventura- e le nuove frontiere del viaggio d’avventura. Prendendo spunto direttamente da quelle puntate -di cui Mediaset possiede i diritti- cercheremo di vedere cos’è cambiato nel mondo dell’avventura, se la scoperta oggi ha un valore interiore, capire se un uomo -l’uomo- è ancora in grado di approcciarsi al viaggio di scoperta, o questa disciplina fa parte di un mondo ormai passato, fantastico, da sogno, idilliaco, che mio padre ha impersonato per un trentennio. E così abbiamo girato la prima puntata. Parla di acqua, di fiumi, raccontando il rapporto tra l’uomo ed il fiume: una metafora della vita”. E qui scatta la motivazione di quest’intervista, anzi di questa bella chiacchierata che ho avuto con Francesca Margherita Fogar: perché le riprese per la prima puntata della nuova edizione di “Jonathan, dimensione avventura” sono state “girate” in Calabria, lungo il corso del fiume Lao, divenuto -a buon diritto- uno degli spot preferiti dai tanti appassionati, professionisti e non, che amano scendere lungo le sue acque gelide e cristalline, all’interno di un paesaggio che poco o nulla ha di mediterraneo. E così il buon Primo Galiano, che di questo fiume e delle circostanti montagne del Pollino è uno dei tanti gelosi custodi -oltre che uno dei più esperti escursionisti- non poteva non passarmi la “dritta”: ho raggiunto telefonicamente Francesca ancor prima che Primo la contattasse. Jonathan ritorna sul Lao! “la produzione televisiva della vecchia edizione era già stata molti anni fa sulle rive del vostro fiume: quindici anni fa “Jonathan” era scesa in Calabria per raccontare gli albori di questa disciplina -il rafting- allora praticata a bordo dei tradizionali gommoni da mare, sui quali uno sparuto gruppo di marziani dello sport estremo, amava farsi trasportare dalla acque di questo fiume che, a mio parere, rimane uno dei luoghi più stimolanti dell’intero panorama europeo. Ora la troupe è ritornata su quelle stesse acque per vedere e far vedere ai nostri spettatori, com’è cambiato il modo con cui la gente comune -e non solo gli esperti- si avvicina a queste discipline che permettono di vivere intense emozioni a contatto con la natura; a quei primi coraggiosi praticanti, oggi si è sostituita una numerosa compagnia di navigatori che ogni anno si lasciano cullare dalla acque del Lao. Canyoning e hydrospeed rappresentano le nuove frontiere di questa disciplina, tra l’acqua e la roccia. Successivamente, con la troupe ci siamo spostati in Valle d’Aosta dove abbiamo incontrato il recordman di discese sui fiumi, Francesco Balducci che ha solcato ben 642 corsi d’acqua in tutti il mondo; poi il nostro omaggio a Mauro Bole, leader del drytouring, una disciplina mista tra l’arrampicata su roccia e quella su ghiaccio, altamente spettacolare, caratterizzata da una spinta paradossale del gesto atletico. Infine, una lunga intervista al grande corrispondente Ettore Mo, un giornalista che per i suoi reportages dalle zone di guerra e per la sua particolare capacità di affrontare l’analisi antropologica dei luoghi di corrispondenza, non poteva che risultare utilissimo per spiegarci il fiume da un punto di vista interiore: il tema delle guerre dell’acqua, delle grandi dighe che trasformano l’ambiente dal punto di vista ecologico”. Pare di capire che “Jonathan” affronterà, soprattutto, il concetto di viaggio…: “il programma -del quale la direzione della Rete ha apprezzato i contenuti e la qualità espositiva- dovrebbe partire nei prossimi mesi e si candida non solo come rivisitazione storica di un ciclo che tanto successo ha riscosso in passato, quanto come nuovo approccio televisivo a temi che da sempre affascinano gli spettatori. E’ questo il tema portante della trasmissione: oggi siamo abituati ad andare in auto e a digitare sul display del più semplice navigatore satellitare la nostra destinazione, attendendo comodamente che questo artificiale compagno di viaggio ci indichi la via da seguire, preferibilmente la più breve; una volta il viaggio era -soprattutto- scoperta, nel senso che il viaggiatore lo intraprendeva in modo del tutto personale, spesso fuori dai tradizionali itinerari, in modo da scoprire luoghi nuovi. Il nostro programma servirà proprio a rivisitare il concetto di viaggio, ed alla fine non è importante se -per esempio- al Polo vi si rechino anche persone comuni, quanto l’atteggiamento da neofita che ognuno di noi deve assumere nell’avvicinarsi ad un viaggio. E’ la vecchia idea di avventura che deve prevalere: non solo il tradizionale bagaglio di oggetti personali da viaggio, ma -evidentemente- il proprio bagaglio culturale che uno si porta appresso: sarà questo il miglior compagno di viaggio” Non posso non chiedertelo, Francesca: cosa ha significato avere avuto un padre come Ambrogio? “penso che per ogni bambino sia fondamentale rapportarsi con il genitore: io ho avuto la fortuna di aver potuto dialogare con un padre oggettivamente fuori dal comune, che faceva il giro del mondo ed io lo immaginavo sempre impegnato in avventure fantastiche, in ogni angolo del Pianeta. Tutto ciò è avvenuto tra la mia nascita, nel 1975, e quel tragico settembre del 1992, un lasso di tempo in cui è maturato un rapporto del tutto straordinario, fatto di complicità assoluta, un’esperienza meravigliosa, pulsante. Come il dopo-incidente, quando rimase vittima di un gioco perverso del destino -<> era la richiesta che mio padre rivolgeva sempre al mare, all’oceano, quasi a chiedere un permesso, un salvacondotto, a questo grande elemento della Natura che doveva accoglierlo per le sue avventure. E con quelle quattro-parole-quattro, mio padre si poneva in posizione di grande rispetto innanzi all’infinita potenza del mare: gli chiedeva, in punta di piedi, il permesso di poterlo incontrare, sfidare. Sai, nell’articolo del “Corriere” ho riportato la supplica di uno strano marinaio, che trattava il mare come un amico e lo rispettava come un maestro: l’insegnamento del mare è un’esperienza unica, si studiano le stelle del cielo come un libro e si impara a chiamare i venti per nome; si prova ad andare insieme, a ragionare come ragiona il mare, ad essere attenti alla sua voce e mai presuntuosi nel volerla ignorare. I colori degli splendidi tramonto che ti stracciano il cuore in due con la loro bellezza sono la cartina al tornasole che rivela l’umore del mare. Quando stai così a lungo, da solo, sulla terra mobile dell’oceano, hai come l’impressione di diventare una strana creatura marina, che nelle tue vene non scorra solo sangue, ma anche acqua salata e che, fuori dubbio, oltre al corpo anche la tua anima appartenga al mare”.
La Provincia Cosentina “A tu per tu con…” n. 4 -05/11/2006
Egidio Lorito, 03/11/2006

Torna su