A tu per tu con...

Conosco Giampiero Mughini dal febbraio del 1992. Gli scrissi una timida lettera, che conservo tra i miei più gelosi ed orgogliosi cimeli epistolari, con l’intento di avviare con lui un dialogo su alcuni temi che mi stavano appassionando in quel periodo -la politica italiana, su tutti- oltre che, non posso negarlo, su quella passione epidermica che ci accomuna, ovvero per quella squadra di calcio contraddistinta da una divisa a strisce verticali bianco-nere che, nonostante la non esaltante collocazione attuale, è entrata nella vita di molti appassionati di questo Paese.

Quando si cerca di contattare un personaggio della cultura, del giornalismo, della politica -insomma, qualcuno di famoso- si può facilmente correre il rischio che la tua bella letterina passi inosservata, persa nel dimenticatoio se non addirittura cestinata: con Giampiero Mughini, ciò non accadde. “Caro Egidio, ringrazio Lei e la sua gentile famiglia per l’attenzione che prestate al mio lavoro. Il suo invito è graditissimo, ma purtroppo sono sempre serrato tra un lavoro e un altro e dunque mi è impossibile prendermi del tempo libero. Se invece lei passasse da Roma, il mio numero figura nell’elenco telefonico. Quanto alla Juve, non credo ci si possa fare illusioni per quest’anno. Grazie ancora e con viva amicizia…”. Questa fu l’attesa risposta, che trovai, effettivamente emozionato, nella mia cassetta della posta il 12 febbraio di quell’anno: fu l’inizio di una frequentazione -prima epistolare, poi telefonica oggi anche personale- tra le più feconde su cui posso contare, l’incontro con una personalità dall’indubbia cultura mai disgiunta da gentilezza, disponibilità al dialogo ed al confronto. Insomma, un vero momento di crescita culturale che ha accompagnato questo lungo periodo, caratterizzato da una strabiliante produzione pubblicistica e da una presenza mediatica che quest’intervista riuscirà solo a sfiorare. I libri di Mughini, dunque: la sua bibliografia più conosciuta contiene “Compagni addio” (Mondadori 1987), “A Via della Mercede c’era un razzista” (Rizzoli 1991), “Dizionario sentimentale (Rizzoli1992), “La ragazza dai capelli di rame” (Rizzoli 1993), “Il grande disordine” (Mondadori 1998), “Un secolo d’amore” (Mondadori 1999), “L’invenzione del ‘900” (Vallecchi 2001), “La mia generazione” (Mondadori 2002), “Un sogno chiamato Juventus” (Mondadori 2003), “Che belle le ragazze di Via Margutta” (Mondadori 2004), “Un disastro chiamato Seconda Repubblica (Mondadori 2005), “E la donna creò l’uomo. Lettera d’amore a BB” (Mondadori 2006). Come se non bastasse, il 5 agosto del 2005 l’ho presentato alla platea di “Alta Marea. Maratea tra natura e cultura”, il ricco salotto culturale fiore all’occhiello dell’estate di questa rinomata località del Golfo di Policastro -che da alcuni anni ho l’onore di moderare- introducendo lo scritto del 2005, un atto di accusa contro questa seconda fase della vita costituzionale italiana. Personaggio affascinante, inutile negarlo, dotato di una straordinaria capacità dialettica supportata da quella particolare forma espositiva che ha contribuito a renderlo ancora più popolare: ogni suo intervento non è mai casuale, mai fuori luogo, mai scontato, perché tutto risulta irrobustito da un tasso culturale che farebbe impallidire ogni test sul tasso alcolico di un’ ipotetica persona avvezza a corpose bevute. Dicevo di quella sua forma espressiva: anni fa, quando Mughini era ospite di una trasmissione televisiva sul calcio, quel suo “corrotti, pagati dall’Avvocato Agnelli” -pronunciata tutta d’un fiato, con tanto di forte sottolineatura delle erre di “corrotti”- divenne una specie di inno mediatico attecchito in breve tempo tra i suoi fan, per non parlare di quell’ “aborro!”, divenuto in breve un tormentone televisivo. Ma Giampiero Mughini è tutt’altro che un personaggio da salotto televisivo -odia ed ama la televisione- è molto di più che un super appassionato di calcio, di Juve: certo, l’argomento lo affascina, se alla Vecchia Signore ha dedicato nel 2003 quel suo “Un sogno chiamato Juventus”. E quel tutt’altro lo cogli nella sua lunga rassegna di libri, di articoli, di scritti, di commenti, di interventi: insomma l’universo-Mughini sta tutto nella sua penna, fine e colta, in quel suo cervello che sprigiona intelligenza viva e mai doma ed in quel suo cuore che per origini toscano-siciliane reca in sé elementi di spicco di queste due culture. Un percorso umano, intellettuale e culturale che parla di passioni, di amori, di bellezza, di poesia, di impegno politico: in una parola, di vita. Caro Giampiero, c’è un libro che riassume molto della tua vita, della tua generazione… “Alludi sicuramente a “La mia generazione. Le idee, i personaggi, i sogni di una casa a Trinità Pellegrini” (Mondadori, 2002, n.d.a.): già, quella casa che ho abitato per un trentennio da quando vi ero arrivato, non ancora trentenne, nel gennaio del 1970, con appena seimila lire in tasca;quell’appartamento che si trovava poco più su al punto in cui avevano apprestato l’ospedale da campo nel quale era morto, ad appena ventidue anni, Goffredo Mameli, il 6 luglio del 1849;quell’appartamento che costava centomila lire al mese, insieme alle spese che dovevo sostenere a Roma, quando tutti -cui andavo a bussare- ti dicevano “no”. I redattori della case editrici cui chiedevo di poter tradurre qualche librino francese o inglese;dicevano “no” i giornalisti amici che speravo mi avrebbero aperto le porte delle redazioni di un eventuale giornale… Solo che noi avevamo la forza dei venti anni, quella forza immane che mai credevamo si sarebbe esaurita: e perciò li reggevamo quei tanti no. Quella casa ha rappresentato il mio personale percorso di maturazione, li sono diventato uomo…” Una casa, è bene sottolinearlo, in cui sono passati in tanti e tutti hanno lasciato un segno più che tangibile all’interno del percorso culturale di Mughini: Paolo Flores D’Arcais con Franco Moretti, Paolo Mieli e Loretta Goggi, Nanni Moretti, Edoardo Sogno, un giovanissimo Enrico Mentana, Ernesto Galli della Loggia e Fiamma Nirenstein, Pierluigi “Pigi” Battista, Giano Accame, Anna Galiena, Barbara Palombelli e Francesco Rutelli, Massimo Cacciari, Ludovica Ripa di Meana e Vittorio Sermonti, Fabio Fazio e fidanzatina, Edwich Fenech e Luca Cordero di Montezemolo, Aldo Busi, Pablo Echaurren, Nori e Sergio Corrucci, Carlo e Marina Ripa di Meana, Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Dell’Utri, Stefano Bonaga, Lamberto Sechi, Walter Tobagi, Giampaolo Pansa. Già, una generazione intera: perché Mughini è lo scrittore di una generazione che molti vorrebbero al tramonto, ma che -invece- mostra ancor oggi tutta la propria forza. Come Mughini giornalista: Paese Sera, Europeo, Panorama: altre emozioni… In questo percorso di vita, gli anni Settanta sono al centro della tua ricerca: “quando pubblicai “Il grande disordine. I nostri indimenticabili anni Settanta”, dedicandolo “alla memoria di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi, morti innocenti”, avevo perfettamente chiaro di voler riportare alla memoria degli italiani quel decennio della storia del nostro Paese: così vicino e così lontano, quel decennio ha rappresentato un periodo drammatico ma anche di grande trasformazione della società e del nostro costume. Solo per citare una lunga serie di episodi -dalla bomba di Piazza Fontana, al rapimento ed all’agonia di Aldo Moro- non esagero quando affermo che sicuramente nessuna società occidentale aveva sopportato un tale stillicidio quotidiano di attentati, di agguati, di omicidi dettati dall’odio politico: quegli anni segnarono la spaccatura in due della nostra penisola, da un lato c’era chi portava il lutto per Giuseppe Pinelli, dall’altro chi per il commissario Luigi Calabresi al punto che un’intera generazione sembrò come bissare e mimare, in ogni angolo del Paese, il drammatico periodo della guerra civile che aveva sconvolto la nostra storia tra il 1943 ed il 1945. E così, se indossavi un eskimo, non era difficile che ti piombassero addosso quelli della destra, mentre se portavi le scarpe a punta a spararti erano quelli di sinistra. Magistrati e poliziotti che uscivano di casa per andare a compiere il proprio dovere finivano uccisi o gambizzati, così come sindacalisti e dirigenti industriali;e che dire di ragazzini di quindici anni che partecipavano ai cortei armati di spranghe e molotov! Il Paese viveva un clima esplosivo e mai tale termine viene usato lontano dal suo significato astratto!”. Ed in effetti, nell’allegato dossier fotografico, quel libro mostra uno spaccato dell’Italia di quel decennio, cupo e grigio, dove l’unico colore che sembrava primeggiare era il rosso: quello del sangue versato per strada. Qualche flash? Milano, 12 dicembre 1969, Piazza Fontana: strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura;Milano, 17 maggio 1972: omicidio del commissario Luigi Calabresi;Brescia, 28 maggio 1974, Piazza della Loggia: strage durante la manifestazione sindacale;San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974: strage a bordo del treno Italicus;Roma, 10 luglio 1976: omicidio del giudice Vittorio Occorsio;Bologna, marzo 1977: scontri tra Autonomia e militanti di Comunione e Liberazione;Roma, 16 marzo e 9 maggio 1978: sequestro e uccisione di Aldo Moro;Genova, 24 gennaio 1979: omicidio dell’operaio Guido Rossa;Milano, 28 maggio 1980: omicidio del giornalista Walter Tobagi. E la lista continua, purtroppo… In quegli anni la politica sembrava il paradigma di vita: anche per Mughini che ha fondato il Manifesto? “Passione, più che altro: nel 1971 vivevo una realtà esterna alla sinistra. Il gruppo di fondatori de “Il Manifesto”, tra cui Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Valentino Parlato era appena uscito dal Partito Comunista e mi contattò con l’idea di voler aprire un quotidiano: nacque la cooperativa formata da dodici elementi, compreso me: poi costituimmo la redazione. Sembrava una gran bella cosa, ma ben presto capii che l’intento non era tanto un laboratorio tra le tante voci ed anime della sinistra, quanto un foglio che avrebbe dovuto rappresentare l’impalcatura di un nuovo soggetto politico ancora più a sinistra: dopo la nascita a fine gennaio, vi rimasi appena due mesi, visto che il primo aprile del 1971 avevo già dato le dimissioni. Evidentemente la mia idea di passione politica era ben diversa dalla loro e da quel momento il mio nome sarebbe stato ostracizzato da quelle pagine. Cosa vuoi, la passione politica (la loro!!!) ha partorito anche questo… Io, invece, ero letteralmente cresciuto con “Giovane Critica”, nata nel 1963, il vero laboratorio dei giovani intellettuali di sinistra: su quelle pagine si maturavano sogni, si studiavano strategie, quelle pagine erano la nostra vita;poi c’è stata l’esperienza di “Lotta Continua”, cui -esclusivamente per motivi tecnici- prestai la firma. Beh, c’è stato tanto, ma ad un certo punto le vie si sono separate...” E così, nel 1987, scrivesti “Compagni addio”… “il senso di questo quasi ventennale scritto è tutto nel titolo: avevo capito il mondo dogmatico e limitante di quella sinistra, così ne presi le distanze. Tutto qua. Quello che poi la mia ex tribù non ha capito e non capisce tutt’oggi è che quella lacerazione e quel distacco avevano il sapore del dramma e del lutto!” Lo scorso anno, con “Un disastro chiamato Seconda Repubblica”, sei tornato ad occuparti di politica. “Non è un caso che l’abbia dedicato “all’indipendenza intellettuale”: era la prima volta che tornavo a scrivere di politica: ho descritto l’inconsistenza totale di questa seconda fase della nostra storia repubblicana. Lo dico chiaro: si tratta di un pasticcio senza limite, come dimostrano le vicende di queste ultime settimane, con un’Italia spaccata in due, con due coalizioni che sono due “armate brancaleone”, con una coalizione che ha vinto per ventimila voti e nella quale, a dettare legge, sono l’ala radicale ed i sindacati. Questo è l’unico Paese al mondo in cui la politica economica è marchiata da un partitino che si dice comunista e dai sindacati, visto che sono loro che detengono il pacchetto di voti decisivo. E ti sta parlando uno che non ha votato né per gli uni né per gli altri, e che non ha la ricetta da passare a chi sta al governo…Una Seconda Repubblica nata, praticamente, da quel crudele lancio di monetine all’indirizzo di Bettino Craxi. Questa è l’Italia ”. Poi c’è il Mughini affascinato dalla bellezza femminile: “Un secolo d’amore”, “Che belle le ragazze di Via Margutta”: poi, quest’anno “E la donna creò l’uomo”, una lunga lettera d’amore scritta a Brigitte Bardot: “ Caro, tu non eri nato e Brigitte era la ragazza del tempo nuovo, della strada nuova, della città nuova. La portabandiera della generazione in jeans e maglione che stava cambiando il volto del mondo occidentale. Si è trattato di un libro sul simbolo degli anni ‘50/’60, di un’Europa giovane ed acerba che ritrova e reinventa il gusto per la vita, per la bellezza e la sensualità, incarnato da una creatura divina che non poteva che nascere a Parigi e che per 20-30 anni è stata la creatura che ha dominato i sogni maschili del mondo” . Politica, storia, poesia, sogni, bellezza. Le passioni di Giampiero Mughini.
La Provincia Cosentina - “A tu per tu con …” n. 2 22/10/2006
Egidio Lorito, 19-10-2006

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