A tu per tu con...

Converso con Alfio Caruso nel giorno in cui, da buon abbonato, ricevo l’ultimo numero di “Panorama”: all’interno ben sette sono le pagine che compongono un forte articolo a firma di Giacomo Amadori, “Milano, capitale della ‘ndrangheta”. Colonne piene zeppe di nomi, dati, accadimenti, situazioni che faranno -almeno spero- accapponare la pelle di ogni calabrese onesto. Nel pomeriggio, il mio libraio mi mette a disposizione due titoli del giornalista catanese ospite di questa nuova conversazione: inizio a sfogliare “Perché non possiamo non dirci mafiosi” e sembra di rivivere la stessa scena: “(…) oggi non è Catania a somigliare a Milano ma, al contrario, è Milano che somiglia a Catania.

Nel 1971 le macchine erano posteggiate sui marciapiedi di Catania, adesso lo sono pure sui marciapiedi di Milano (…). Dal 1950 al 1970 fu la stagione del sacco edilizio, del diffondersi della corruzione, dell’infiltrazione mafiosa; la città si sentiva beata perché rifiutava di vedere. Distratta dal mare e dal sole, faceva di tutto per non badare allo scempio, ai manigoldi che le rubavano il futuro (…)”. L’avessi fatto apposta, non vi sarei riuscito, ma grazie alla rapida risposta di Valeria Veronesi -dell’ufficio stampa della Longanesi- entro subito in contatto con il gradito ospite e getto le basi per un ponte tra Catania e la Calabria -via Milano- oggi più che mai accomunate dalla non felice situazione di vivere sotto il pressante controllo della criminalità: Cosa Nostra nell’isola, la ‘Ndrangheta nella nostra penisola. Alfio Caruso è nato a Catania nel 1950 e vive a Milano: giornalista e scrittore, è autore di cinque romanzi, thriller politici e di mafia, Tutto a posto (Leonardo, Milano 1991), I penitenti (Rizzoli, 1993), Il gioco grande (Rizzoli, 1994), Affari riservati (Rizzoli, 1995), Da cosa nasce cosa. Storia della mafia dal 1943 a oggi (Longanesi, 2000), Italiani dovete morire (Longanesi, 2000), Breve storia d’Italia. Dal 2000 a.C al 2000 d.C. (Salani 2001), Perché non possiamo non dirci mafiosi (Longanesi, 2002), Breve storia del mondo -con Ernest Gombrich (Salani, 2003), Tutti i vivi all’assalto (Longanesi, 2003), Italiani dovete morire (Tea, 2003), Caltagirone e gli alleati. Politica e società (9 luglio 1943-25 gennaio 1944) (Le Nove Muse, 2004), Arrivano i nostri (Longanesi, 2004), In cerca di una patria (Longanesi, 2005), L’uomo senza storia (Longanesi, 2005), Noi moriamo a Stalingrado (Longanesi, 2006). Si è occupato anche di sport, approdando in libreria con Area di rigore (Sei, 1978) e Calcio nero (Feltrinelli, 1980) scritti assieme a Giovanni Arpino. Nel 2001, proprio per “Italiani dovete morire” -un’appassionata ricostruzione dell’eccidio di Cefalonia- gli sono stati attribuiti il Premio Hemingway ed il Premio Aqui Storia. “Furibondo d’amore per la “sua” Sicilia, Alfio Caruso ha buttato giù un’invettiva gonfia d’odio. Uno di quegli sfregi letterari, coraggiosi e temerari, che si facevano una volta”: così Gian Antonio Stella, sottile penna del Corriere della Sera, presenta questo ricco atto d’accusa verso la realtà siciliana -e catanese in particolare- che proprio non può passare inosservata perché attuale e drammaticamente omogenea a ciò che accade da questa parte dello Stretto, quello di Messina, in Calabria ovviamente. Come appaiono, da Milano, la Sicilia e la Catania di oggi? “Ho l’impressione che si sia avverata in pieno quella vecchia profezia di Tomasi di Lampedusa magistralmente espressa ne Il Gattopardo, quando la famiglia del Principe di Salina si sposta verso l’entroterra per trascorrevi l’estate: in quel contesto si dice a chiare lettere che il paesaggio era “irredimibile”; può apparire un’affermazione forte e forse anche fuori luogo se riferita al paesaggio, ma credo che Tomasi di Lampedusa -che pure non si occupò di mare nel senso geofisico del termine- descriveva una Sicilia in cui nel definire “irredimibile” il paesaggio, veniva resa pubblica una sorta di condanna biblica di questa terra! Quando ero ragazzo, la mafia governava di sicuro solo tre delle nove province, mentre oggi, credo, governi l’intera isola: i siciliani appaiono come una popolazione in cattività. E tutti gli episodi più recenti, come l’arresto di Bartolo Pellegrino e la stessa inchiesta andata in onda qualche sera fa su La 7 -con al centro degli obiettivi delle telecamere la città di Corleone ad un anno dall’arresto di Bernardo Provengano, con buona parte degli abitanti che facevano a gara a mostrare la propria stima ed il proprio appoggio al loro “illustre” concittadino- o come gli scandali legati alla sanità siciliana -con l’80% dei medici inquisiti- o, ancora, come la vicenda che vede coinvolto lo stesso presidente della Regione Salvatore Cuffàro, per la prima volta sotto processo per concorso esterno di associazione mafiosa- mostrano a chiare lettere il senso di queste mie parole. Ebbene, mi chiedo se questa Sicilia sia ancora Italia e se quest’Italia sia ancora Europa! Per non parlare di quell’altra micidiale profezia di Leonardo Sciascia che nelle ultime pagine de “Il giorno della civetta” fa dire al capitano Bellodi che “la linea della palma avanza 500 metri l’anno”: era il 1961 e dopo quarantasei anni viene ancora da chiedersi dove sia arrivata questa linea della palma!” Mi sono bastate già queste poche battute, questi ricordi storici tra cinematografia e letteratura per rappresentarmi Alfio Caruso: me lo immagino -fotografia a parte- come uno di quei siciliani -vorrei sempre più numerosi- coraggiosi nel denunciare quanto di sconcertante una certa sicilianità ha prodotto e continua a produrre tra scandali, processi, legami non tanto celati tra politica e malaffare. Lo immagino così perché sono le stesse medesime sensazioni che provocano in me le sue pagine, come se fossero state scritte da un calabrese a proposito della Calabria: d’accordo che a dividerci c’è solo lo Stretto di Messina, ma penso -e Caruso mi correggerà se sbaglio- che quella striscia di mare così carica di storia, alla fine, poi non divide proprio nulla! E lo dico con grande tristezza. Lo Stretto di Messina, il mare… “I siciliani non amano il mare. Dicono di esserne grandi appassionati, di non poterne fare a meno, ma è un’esibizione, uno sfoggio di vanità.(…) Storia e mito si sono alternati su questo mare aspro, mai addomesticato. Scilla e Cariddi; Polifemo e Ulisse, Cartaginesi e Romani; la grande battaglia navale di Milazzo, la prima di cui si parla nei libri di storia; i velieri turchi e la fantasmagorica adunata della flotta cattolica a Messina in attesa del decisivo scontro di Lepanto; per finire con le grandi navi da sbarco alleate nel ’43, l’inizio della campagna europea che avrebbe condotto alla sconfitta del fascismo e del nazismo. Ce ne facciamo un vanto, ma continuiamo a considerare il mare un nemico, la principale minaccia della nostra insularità. Vi pare un paradosso? Ma noi siamo tutto un paradosso. Dunque, avremmo voluto essere un’isola irraggiungibile. Dal mare, invece, sono giunti gli invasori che comandavano, depredavano, figliavano: fenici, greci, cartaginesi, romani, longobardi, bizantini, arabi, normanni, angioini, aragonesi, assurgici, borbonici, piemontesi, americani (…)”. Com’è questa storia che i siciliani non amano il mare? “Dal mare sono arrivati tutti i nostri conquistatori e la Sicilia è stata praticamente conquistata da tutti e mai vinta da nessuno non perché noi siciliani siamo detentori di un carattere particolarmente forte, ma a causa della nostra stessa inclinazione a non volerci considerare mai parte di un tutto. Noi riteniamo che lo Stato sia un qualcosa di estraneo, di esterno, quando non anche un nemico e l’unica istituzione che ha diritto di cittadinanza in Sicilia è la famiglia. Siamo, forse, l’unica, realtà in cui gli scrittori non siano riusciti a raccontare storie legate al mare, storie positive intendo: se pensiamo che i nostri due grandi romanzi che hanno descritto il rapporto tra la Sicilia ed il mare -I Malavoglia ed Horcynus Orca- sono storie di dannazione e di dolore, allora è possibile comprendere appieno il senso di questo rapporto non certo idilliaco!”. E Caruso spiega finemente questo singolare atteggiamento di repulsione verso il grande continente liquido quando afferma che “nelle ballate dei cantastorie dispensatori di onore e di destrezza persino a chi non li meritava, non c’è traccia di imprese marinare, non si parla di imprese gioiose, cariche di aspettative, bensì di bastimenti carichi d’emigranti con le lacrime agli occhi (…) Un mare di paura e di destini segnati, un mare di sventura e mai di avventura, un mare sul quale non sono cresciuti né grandi condottieri né capitani coraggiosi nè esploratori. Un mare considerato quale semplice passatempo e banco di prova delle giovani leve che però non ha allevato velisti, canoisti, canottieri, nuotatori di piscina e di gran fondo, pallanotisti in grado di primeggiare. Soltanto nell’ultimo decennio il nostro accentuato gusto per il paradosso ha regalato una stupefacente fioritura di pallanotiste(…)”. Ad un certo punto del libro leggo “Né con lo Stato né con la mafia”. Ma allora, con chi stanno i siciliani? “Quella è un’affermazione di Sciascia! Esattamente esplicativa di quella terzietà cui si appellano i siciliani: sono convito che il 97-98% abbia a che fare con questa organizzazione o comunque senta la mafia molto più prossima di quanto non senta, invece, lo Stato! Quando Falcone nel 1991 lasciò Palermo per Roma, i suoi concittadini tirarono un sospiro di sollievo. Il “Falco” adorato dagli uomini della scorta, il nemico più pericoloso della plurisecolare avventura di Cosa Nostra, era costretto a spostarsi nella capitale per non arrendersi. A Palermo gli avevano fatto terra bruciata intorno: non i Bravi Ragazzi, ma l’ipotetica società civile, i rappresentanti della società civile, i rappresentanti delle istituzioni, i presunti avversari della mafia (…). Falcone andò via dalla città che amava perdutamente quasi che il problema fosse lui. Non era la prima volta che accadeva ad un uomo di legge: nell’estate del 1985 gli Amici ed i Bravi Ragazzi scorazzavano liberi e coccolati per la città, facevano i bagni a Mondello assieme a distinti borghesi, mentre un isolato sceriffo, il vicequestore Ninni Cassarà, incorruttibile e di gran fiuto, scombinava orari ed abitudini, evitava di rientrare a casa nell’intervallo, tentava con l’aiuto della moglie e di un paio di fedelissimi di sfuggire ai propri carnefici. Non ci riuscì: assieme a Roberto Antiochia fu macellato nel cortile di casa sotto lo sguardo impietrito della moglie affacciatasi dal balcone. Laura Cassarà si precipitò giù per le scale, bussò a ogni porta, nessuno la aprì. In Sicilia, lo chiamano farsi gli affari propri: è il papà del “niente sacciu, niente visti, niente ntisi” (niente so, niente ho visto, niente ho sentito): in parole povere, l’omertà, che deriva dalla nostra inattitudine a mantenere un segreto, il più insignificante o il più irrilevante”. Ma c’è anche un Alfio Caruso che ha ricostruito la grande epopea dei soldati italiani impegnati in due drammatiche vicende storiche che, tra il 1942 ed il 1943, segnarono la nostra memoria collettiva, “la storia di una tragedia che non ha mai lasciato la coscienza degli italiani”, come ha scritto Marco Innocenti su Il Sole24Ore, a proposito di “Tutti i vivi all’assalto. L’epopea degli alpini dal Don a Nikolajevka”, o come ancora -in prima di copertina- Mario Cervi, sottolineando che “Caruso racconta bene: alternando la descrizione dei grandi avvenimenti bellici al racconto di vicende di uomini e di reparti scaraventati in quell’inferno… Eccellente”. “Avevo voglia di raccontare una bella storia italiana e gli avvenimenti che avevano caratterizzato la partecipazione degli italiani in episodi fondamentali del secondo conflitto bellico mi apparvero, per la loro drammaticità ed umanità, quanto di più appropriato: in quella pubblicazione, uscita nel 2003 per la Longanesi -e nel 2005 per la Tea- racconto la semisconosciuta anabasi italiana, la più straordinaria avanzata all’indietro della storia militare, l’indomita resistenza del Corpo Alpino in Russia: buttate nella fornace della seconda guerra mondiale dall’aberrante menefreghismo di Mussolini, le penne nere scrivono una pagina di epico e silenzioso valore. Dal 17 al 31 gennaio 1943, la Tridentina, la Cuneense e la Julia affrontano centinaia e centinaia di chilometri nella neve pur di non arrendersi alle armate di Stalin; a guidare la marcia degli alpini è soprattutto il desiderio di tornare a baita, più che l’amor di patria: camminano, combattono e muoiono a oltre quaranta gradi sotto zero. A volte arrancano per dodici ore nella steppa di ghiaccio e poi vanno all’arma bianca per conquistare un’isba per la notte. Sono combattimenti disperati nei quali “tutti i vivi all’assalto” diventa il grido di riconoscimento l’estremo atto di fede nei confronti del commilitone, quando si arriva a chiedere all’amico di essere ucciso piuttosto che cadere vivi nelle mani del nemico. La folle decisione di Mussolini sprofonda in sei mesi nel buco nero della Storia duecentoventimila famiglie italiane. Alla fine saranno più di centomila coloro che non faranno ritorno, oltre trentamila coloro che ne porteranno un ricordo indelebile nelle carni e anche chi la scamperà né avrà, comunque, l’esistenza, segnata. Così andò sottoterra la migliore gioventù italiana”. Non mi era sfuggito un suo intervento pubblicato su La Stampa lo scorso 31 marzo, “Vallettopoli, che brutti spettatori”. Caruso aveva affermato, a chiare lettere, che “L’Italia attratta dall’inchiesta di Potenza è disposta a tutto pur di ricevere la dose di sporcizia quotidiana. Vogliosa del torbido, tra menzogne e dibattiti insensati, (…) questa società incivile s’aggrappa al torbido, allo squallore, alla miseria: è intricata da chi incontra un trans, ma disinteressata da chi incontra un mafioso (…) E’ il Paese felicemente anormale, in cui il massimo dell’intolleranza per le droghe si accoppia col massimo della tolleranza per l’alcol e il fumo, malgrado producano un numero di morti mille volti superiore(…)”. Mi pare che ci sia molto da riflettere…
La Provincia Cosentina
Egidio Lorito, 14-03-2007

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