Il docente di pedagogia e comunicazione riflette sulla figura e sulla scomparsa dell’ex politico della Dc, simbolo dela Prima Repubblioca, forse mal giudicata.

Dalla natìa Irpinia alla Cattolica di Milano, dalla segreteria di Piazza del Gesù alla guida del governo nazionale, la parabola umana, culturale e politica di Ciriaco De Mita ha, in fondo, rappresentato l’immagine stessa di un modo di concepire la politica troppo frettolosamente relegato negli archivi della storia e su cui, invece, occorrerebbe riflettere.   

Lo storico riconoscimento di Sandro Fontana e la profezia di Giovanni Marcora nel background politico del leader democristiano.  

Mario Caligiuri, originario di Soveria Mannelli, nel catanzarese, classe 1960, è ordinario di pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria dove ha ideato il “Master in Intelligence” il primo attivato da un ateneo pubblico italiano, promosso nel 2007 dal Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga. Sindaco più giovane d’Italia nel 1985, ha trasformato il suo comune nel più informatizzata d’Europa, come attestò il Censis nel 2003. Assessore regionale alla Cultura dal 2010 al 2014, dedica grande attenzione ai temi dell’educazione politica e della comunicazione: il suo recente “Aldo Moro e l’educazione civica. L’attualità di un’intuizione” (Rubbettino, 2019) sottolinea l’insostituibile bagaglio della cultura politica in capo a chi riveste ruoli amministrativi o di governo.    

Panorama.it ha dialogato con Mario Caligiuri su alcuni passaggi della lunga e complessa parabola politica dell’ex segretario (1982-1989) presidente (1989-1992) della Democrazia Cristiana, e presidente del Consiglio dei ministri (1988-1989) scomparso due giorni addietro. Era sindaco di Nusco -neanche 4000 abitanti sospesi a circa 1000 metri di altezza- caratteristico borgo della verde Irpina – dal 2014, rieletto nel 2019: e aveva fatto assurgere quarant’anni addietro il suo borgo natio a ruolo di Camelot della politica italiana.   

Il riconoscimento “politologico” dell’agire politico di Ciriaco De Mita l’aveva vergato anni addietro un esponente della Democrazia Cristiana che per formazione, cultura e, soprattutto, provenienza geografica, apparentemente nulla aveva a che fare con il leader campano, anzi Irpino. Scriveva Sandro Fontana (1936-2013) -bresciano, docente di Storia contemporanea nell’ateneo della sua città, assessore alla Regione Lombardia, vice-segretario nazionale della DC, direttore del “Popolo”, senatore e Ministro per l’Università e la ricerca scientifica nel 1992-93, vicepresidente del Parlamento europeo sino al 1997- che “(…) era toccato proprio a un esponente di spicco della sinistra democristiana come Ciriaco De Mita rendere possibile, con una provvidenziale raccolta di firme  in Irpinia, la celebrazione del referendum del 18 aprile 1993, nonché lanciare lo slogan della “sconfitta vincente” -su “la Repubblica” del 20 gennaio 1994-, secondo il quale per vincere politicamente bisognava perdere elettoralmente o, meglio, per far vincere un gruppo di potere e un certo disegno politico, doveva perdere l’intero partito politico”. Cosa legava un fine intellettuale e storico lombardo originario di Marcheno in Valtrompia, a due passi dal Lago di Iseo, destinato a percorrere alcune tra le vette più alte della carriera politica, ad uno sconosciuto figlio di un sarto-postino che dal profondo Sud, nel 1947 approda al Collegio Augustinianun di Milano per frequentare giurisprudenza alla “Cattolica”? Esattamente le origini dell’impegno politico, vissuto e condiviso in una fucina di giovanissimi iscritti che nel 1953, a Milano, avrebbero dato origine alla corrente di sinistra dell’allora in crescita Democrazia Cristiana. Quei giovani nella “Sinistra di base” -la “Base”- avrebbero trovato l’appoggio economico di Enrico Mattei e la guida politica di un leader del calibro di Giovanni Marcora, mutando per sempre l’immagine stessa dall’allora partito dei cattolici italiani.            

Professore Caligiuri, circola un aneddoto sull’elezione di De Mita a segretario della Dc.                         

«De Mita, giovane studente alla “Cattolica” di Milano, era stato tra i fondatori della corrente democristiana della “Base”: animatore, in quegli anni, ne era stato un ex partigiano, Giovanni “Albertino” Marcora, al quale quando il 5 maggio del 1982 un giornalista della Rai domanda: “Perché lei, lombardo, sostiene come segretario della Dc il campano Ciriaco De Mita?”, risponde: “Perché l’intelligenza non ha una connotazione geografica”».

Gli anni Ottanta ritornano sempre…

«Quel decennio appena aperto fu costretto a fare i conti con il terremoto dell’Irpinia, quasi 3 mila morti e 9 mila feriti. Lo Stato stanzierà oltre 60 mila miliardi di lire nella ricostruzione, probabilmente l’investimento maggiore mai compiuto nella storia d’Italia. Nel 1989 venne anche istituita anche una commissione d’inchiesta sull’uso di quei fondi, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro. E’ passato giusto il tempo per ragionarci sopra…».

 In quegli anni venne coniata l’espressione “clan degli avellinesi”.

«I detrattori di Ciriaco De Mita definirono così il suo entourage riferendosi alle varie personalità che ne supportavano la sua azione politica: erano tutti originari della sua provincia di origine e furono destinatari di incarichi di notevole rilevanza. Anche se appellati in senso dispregiativo, nessuno potrà dubitare sull’intelligenza politica dei vari Antonio Maccanico, Biagio Agnes, Nicola Mancino e Gerardo Bianco. La profezia di Marcora, evidentemente».  

Non sarà stato facile rimanere così a lungo alla guida della “Balena Bianca”

«Ma De Mita ci riuscì: con l’elezione del congresso nazionali del 1982 e la conferma in quelli del 1984 e 1986, per quasi sette anni consecutivi, Ciriaco De Mita rimase segretario della DC, detenendone il record di durata. Inoltre è stato per quindici mesi tra il 1988 e il 1989 l’ultimo presidente del consiglio meridionale eletto dai cittadini. Ci ritorno sopra, ma il lombardo Marcora aveva visto lungo…». 

Nell’aprile del 1988 il Presidente della Repubblica Cossiga gli affidò l’incarico di formare un nuovo governo.

«E De Mita non tradì le aspettative. Si trovava alla guida del celebre “Pentapartito” formato da democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali. E divenne il primo segretario della Democrazia Cristiana ad essere eletto presidente del Consiglio dei Ministri dai tempi di Amintore Fanfani. Poco altro da aggiungere».   

Anche in quei giorni, inizio in salita…

«Neanche il tempo di gioire che le Brigate Rosse uccidono il 16 aprile del 1988 -tre giorni dopo la sua nomina- il senatore forlivese Roberto Ruffilli, suo stretto consulente per le riforme istituzionali, che aveva avuto un ruolo di primissimo piano nel varo del suo governo. Rivendicando l’omicidio del cinquantunenne storico e politologo, le Br definirono Ruffilli “l'uomo chiave del rinnovamento, vero e proprio cervello politico del progetto demitiano”. Immagino il dolore umano e la difficoltà a proseguire senza una guida di quel valore».   

E’ facile ricordarlo post-mortem. Capita così con tutti…

«Aveva un’idea alta e avanzata della politica, poiché si rendeva conto che i problemi del Paese richiedevano un’ampia convergenza politica, tanto che già negli anni Cinquanta aveva ipotizzato il dialogo con il Partito Comunista. In realtà dopo l’esperienza del compromesso storico ritenne che l’alleanza strategica – anche se spesso conflittuale – con il Psi di Craxi fosse la strada da seguire».

Sulla drammatica vicenda umana e politica di Aldo Moro aveva le idee chiare.

«Nel 2017 lo invitai all’Università della Calabria per un convegno su “Aldo Moro e l’intelligence”. Le sue prime parole furono: “Gli assassini di Moro sono rei confessi in tribunale”. Il suo intervento rappresenta un esempio di straordinaria lucidità politica».

Diciamolo chiaramente: si muoveva in un altro mondo.

«Le sue sempre valide categorie culturali, facevano fatica a confrontarsi con il consenso che deriva dagli algoritmi, Instagram e TikTok. Infatti, il sistema politico che è succeduto a quella che Pietro Scoppola definiva “La Repubblica dei partiti”, si è progressivamente irrigidito su sè stesso, individuando una buona parte degli eletti già prima del voto, attraverso il meccanismo delle liste bloccate che riducono la democrazia ai minimi termini delle procedure elettorali».

Politico a tutto tondo.

«Sulla sua bara, ieri a Nusco, nel corso dei funerali alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è stata collocata la sua fascia tricolore. E’ morto da sindaco in carica del suo borgo, Nusco. Un ruolo che non mai considerato una “deminutio”, perchè la politica era il suo tarlo e il suo orizzonte e continuò a praticarla anche nella cosiddetta “Seconda Repubblica”. Certo, si sentiva a disagio, non era più il suo mondo. Restava sempre un centrista ma si era recentemente collocato nell’Udc, rivendicando, forse, l’omogeneità sostanziale del sistema».

Fino alla fine…

«Fino alla fine ha creduto in una politica che guardava negli occhi e che si preoccupava delle persone come lui l’aveva sempre concepita e praticata, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Convinzione che lo aveva portato a candidarsi nel 2014, riconfermato nel 2019, a Sindaco di Nusco, la sua leggendaria (per i democristiani degli anni Ottanta) città natale».

Panorama.it                                                             Egidio Lorito, 30-05-2022