Armando-Bencardino-stele

Oggi la stele commemorativa a Praia a Mare, la sua città

La vita delle comunità sociali caratterizzate da vicinanza nei rapporti personali registra avvenimenti che ne segnano indelebilmente la memoria pubblica, considerata  uno dei filoni più interessanti nello studio della cultura comunitaria che, da Habermas in avanti, ha connotato la sociologia della cultura e, in essa, l’insieme delle narrazioni della sfera pubblica che riguardano le rappresentazioni del passato. Esattamente ciò che si materializzerà, questa mattina, a Praia a Mare dove un avvenimento accaduto quarant’anni addietro diverrà simbolo della memoria pubblica nella giovane narrazione locale. La vicenda terrena di Armando,  appena quarant’anni fa, aveva lasciato attonita un’intera comunità, colpita proprio alla vigilia di una delle stagioni estive, quelle degli anni Settanta che l’avevano catapultata nel filone di un turismo di qualità, grazie al fascino ancora intatto dei luoghi e ad un tessuto socio-economico in rapida crescita. Ma questa è un’altra storia… 

Armando Bencardino era nato a Belvedere Marittimo il 19 febbraio del 1958, primogenito di una coppia di giovani sposi che decide di stabilire la nuova residenza appena qualche decina di chilometri più nord, a Praia, appunto,  nel maggio del 1968: già, il Maggio del Sessantotto, tempo di contestazione giovanile che aveva appena agitato la costa occidentale dell’America a stelle e strisce e che, ora, stava incendiando Parigi e le città “più avanti” della nostra Italia. Ma anche questa è un’altra storia… E’ un ragazzo dinamico, Armando: in riva al Tirreno praiese frequenta la quinta elementare, le medie e il liceo classico, distinguendosi per un carattere solare, generoso, pieno di voglia di vivere, per un’innata disponibilità ad aiutare gli altri, sempre con il sorriso sulle labbra. 
Ed è un giovane  calciatore in forza alla Polisportiva Armando Picchi che in quegli anni diviene una sorta di oratorio laico, con decine di ragazzini coinvolti: quel sodalizio portava il nome di un giovane calciatore livornese, classe 1935, uno dei migliori liberi nella storia del calcio italiano, che aveva contribuito a rendere grande l’Inter di Moratti ed Herrera tra il ‘60 ed il ‘67 per poi virare nella Juve di Allodi e Boniperti nel 1970, da allenatore, nell’ultimo campionato della sua vita, qualche mese prima che una grave forma di amiloidosi lo strappasse a quella vita a neanche 36 anni. Armando di Praia a Mare, giovane promessa del calcio giovanile locale e Armando di Livorno. Due storie destinate ad incontrarsi, accomunate da un triste destino.        
“La nostra società calcistica nacque nel 1971, proprio all’indomani della prematura scomparsa di Armando Picchi e le simpatie nerazzurre di un nostro giovane allievo ci indirizzarono per quel nome: avevamo già un primo nucleo di giovanissimi calciatori, nati tra il 1956 ed il 1959, che formavano l’ossatura della squadra, come Giovanni Lo Tufo, Ernesto e Marcello Pepe, Angelo Maiorana, Leo Cazzolato, Raffaele Poli, Giovanni Iannini, Gioacchino Arcella, Emiddio Torre, Giuseppe Mollo, Antonio ed Egidio Vanni, Cosimo Nicoletti, Riccardo De Lorenzo, Mario Riccardi, Paolo Montemarano, Biagio Spolitu, Biagio Bello ed Armando, ovviamente. Ragazzini tra i dodici ed i quindici anni che tenevano alto il nostro gruppo sui campi polverosi di allora, alternando alla passione per il calcio l’impegno nella scuola”, ricorda con commozione Giovanni Oliveto, un lucano doc trapiantato a Praia in quegli anni: di un lustro appena più grande, quel giovane allenatore, in fondo, era una sorta di fratello maggiore.  “Erano i figli della nostra piccola comunità che nel 1972 si aggiudicarono la Coppa disciplina, un trofeo del tutto particolare, evidentemente”. Lo osservo, Giovanni, mentre ricorda commosso le gesta dei suoi campioncini, mostrandomi orgoglioso un’istantanea del 1971, loro che vivevano la propria giovinezza spensierata in quei pesanti e cupi anni Settanta, insanguinati da un piombo che qui -nella lontana provincia calabrese- mai sarebbe arrivato. Qui, gli “anni di piombo” -per dirla con il poeta romantico tedesco Holderlin- avrebbero sicuramente fatto sorridere  Margarethe Von Trotta, felice di una diversa interpretazione della sua celebre pellicola del 1981. A Praia, quei ragazzini inseguivano un sogno legato ad un pallone ruvido, figuriamoci! E anche questa è un’altra storia…
“L’Armando Picchi  contava su giovani guidati da forti sentimenti di amicizia, ed Armando ne era la colonna portante: era  l’amico che univa e motivava lo spogliatoio, che se due litigavano si trasformava in paciere, era il calciatore che ad un fallo reagiva tendendo la mano all’ avversario, era il simbolo della bontà, della lealtà, del rispetto, dell’amicizia, della generosità. E la nostra famiglia era diventata il luogo in cui condividere i successi come le delusioni: Armando era il figlio che ogni genitore sognava, studioso, obbediente, affettuoso, positivo. Un fratello da prendere ad esempio, un “angelo” evidentemente non destinato a questa terra ma a progetti più importanti e per noi sconosciuti”. Isabella è la sorella minore di Armando: la sua è una narrazione dolce, affettuosa, carica di rimpianti, di occasioni ed esperienze non convissute con quel fratello. Sì: la sua è una narrazione “postuma”, lei che il giorno della scomparsa di Armando non aveva neanche due anni. Narra del fratello che non ha mai “praticamente” conosciuto con una lucidità, una capacità ricostruttiva e mnemonica che lasciano senza parole: la sua è una testimonianza indiretta, non condivisa. Eppure c’è tutta la potenza della memoria, di quella che Henri Bergson avrebbe definito “mèmoire-habitude”, gli apprendimenti incorporati, via via, nel corso della nostra esistenza:  perchè, ovviamente, ad Isabella manca la “mèmoire-image”, lei che di quei pochi mesi di vita con il fratello non può certo avere un immagine nitida! Possiede la lezione del passato, non la sua immagine.
Come di quel 28 Giugno 1977, un martedì di quelli che l’estate è già avanti, a Praia,  una manciata di giorni all’inizio degli esami di Stato, in quell’allora canonico 1 luglio: “la Costituzione della Repubblica Italiana è garanzia di libertà e di democrazia”  è una delle tracce d’italiano, e un dialogo di Seneca -“Se vuoi vincere l’ira, soffoca le sue manifestazioni”- tocca agli studenti del Classico.
All’alba di quel martedì, un ignaro padre di quarantacinque anni avrebbe cercato, invano, di svegliare quel figlio che si era addormentato solo qualche ora prima: un’alba drammatica, un risveglio irreale, per quella famiglia (il padre Michele, la mamma Maria, il fratello Antonio, la piccola Isabella), per la piccola comunità locale, per i suoi amici di pedate ad un pallone, ad un’età che induce a pensare a ben altri  progetti.  La Fondazione Armando Bencardino, nata l’anno dopo sotto la guida autorevole del compianto avvocato Aldo Nicodemo, sarebbe divenuta, nel tempo, un sodalizio culturale finalizzato a perpetuare il ricordo di quel giovane strappato alla vita troppo presto: le borse di studio annuali, riservate agli studenti del Liceo Classico a partire dal 1980, divennero uno strumento di promozione culturale destinate a valorizzare i colleghi futuri di Armando, anche in collaborazione con Amnesty International ed Italia Nostra.  Ora, questo intero ciclo vita-morte-memoria prenderà forma in una stele commemorativa opera di Salvatore Pepe, talentuoso artista e docente d’arte: “si compone di una colonna in cemento armato, a base quadrata, rivestita da marmi policromi sui cui quattro lati è riportata la sagoma di una figura umana stilizzata nell’atto di calciare un pallone che nel suo assetto verticale va a simboleggiare la spirale della vita: l’azione è interrotta, sospesa nel tempo della storia e del ricordo. La figura esile, al contempo solida, richiama l’eleganza dell’atleta intento in un assist, lasciando agli altri il compito di continuare l’azione. Girando intorno alla stele si è come assorbiti dall’ascendenza ritmica della figura, quasi interagendo con essa, spingendo lo sguardo dal basso verso l’alto”.
Da oggi Armando Bencardino, ragazzo mite, tornerà idealmente a calciare quel ruvido pallone. Quarant’anni dopo. E questa è la vera storia…     

Cronache delle Calabrie, pag. 27                             Egidio Lorito, 19/02/2017