Sommario: 1. L’informazione e la ricerca dell’etica –  2. la nascita dell’etica comunicativa  .  

1. Le riflessioni che seguono hanno come comun denominatore la costante tutela del soggetto principale della comunicazione e dell’informazione, cioè la persona che è investita dal continuo fascio di notizie: in questo senso, informare significa non solo aggiornare continuamente i destinatari del complesso di avvenimenti che si verificano ai quattro angoli del globo come sotto l’uscio di casa propria, ma soprattutto tutelare i destinatari da ogni possibile distorsione.

L’informazione deve, dunque, porre al primo posto della propria scala dei valori la costante difesa di quei soggetti che, a vario titolo, entrano in contatto con essa; da ciò il rispetto di regole etiche continuamente aggiornate al mercato mediatico, in modo che ogni attore sia consapevole del suo ruolo e dei limiti che lo caratterizzano.
E il giornalista – figura mediatica che prendiamo a modello delle nostre riflessioni – non può prescindere da regole di correttezza e deontologia professionale pur di rimanere a galla nel business  del mercato.
Questo perché «la professione giornalistica non può vedersi come un gadget del giornale che produce, non può sottostare sempre e soltanto alle regole del mercato, non può correre appresso alla continua rivoluzione tecnologica senza riflettere, ripensarsi, aggiornarsi, senza darsi (e rispettare) regole etiche, perché essa, più e meglio, anzi prima di altre, non può non rispettare innanzitutto la persona e riconoscerne il primato.»
Viviamo nell’era delle comunicazioni, caratterizzata dal «passaggio dalla “galassia Gutemberg” al “villaggio elettronico...”»  una realtà che vede «da un lato, un panorama dei media di una società avanzata, un arco completo di possibilità di accesso all’informazione, un elevato numero di quotidiani a diffusione nazionale, una fitta rete di quotidiani locali, un’offerta di periodici completa e diversificata;ma a questo straordinario attivismo comunicativo non corrisponde, dall’altro, una pari crescita della qualità dell’informazione e della diffusione della cultura.»
Il vero problema che oggi caratterizza il mondo dell’informazione è proprio quello della qualità del servizio reso ai consumatori, siano essi lettori di un quotidiano o spettatori della televisione, visto che spesso questi ultimi  (cioè noi stessi!)  si trovano senza strumenti di tutela giuridica innanzi a pericoli di spessore sempre più crescente.
La storia dell’informazione nel nostro Paese ci racconta di decine di casi nei quali il “mostro” è stato sbattuto in prima pagina solo  per  sete   di  sensazionalismo  e di  ricerca  ossessiva  di scoop:  il politico ammanettato, l’avviso di  garanzia  conosciuto  prima dalla opinione pubblica che dallo stesso indagato, la ricerca di popolarità sui canali televisivi sono alcuni dei momenti più eclatanti cui abbiamo assistito in questi ultimi anni e che hanno contribuito a rappresentare il senso del problema. Ben diverse stanno le cose in altri ambiti geografici: «nelle società anglosassoni, l’etica professionale dei giornalisti pone al primo posto – invece – il ruolo di responsabilità sociale e personale di garanzia del cittadino, di strumento a disposizione della pubblica opinione per verificare la veridicità di una notizia e valutare l’operato dei pubblici poteri.»
Da noi accade il contrario: la stampa quotidiana, in particolare, è legata a modelli di ristrette elítes che proprio sulle pagine di un quotidiano trasformano l’informazione come luogo di scontro tra gruppi di pressione, lobbies; da noi la stampa – anzi il potere mass-mediologico – continua ad essere un potere che “forma” l’opinione pubblica più che “informa” la stessa, a voler incidere, a volte, sulle scelte politiche, ed a condizionare il tipo di vita degli stessi lettori.
Si tratta di una  “involuzione morale”  alle cui radici stanno sia il crollo delle regole di mercato sia una forte superficialità di molti giornalisti nell’affrontare temi delicati.
Ma c’è un altro motivo che non può essere taciuto, prodotto dallo stesso progresso tecnologico: «il tradizionale ruolo di editori e giornalisti  quali  mediatori  tra  la  realtà dei fatti e l’acquisizione di conoscenza da parte dei lettori, viene messo in crisi dall’enorme mole di informazione che si riversa, oggi, sul pubblico […]» tanto da creare problemi  “tecnici”  agli operatori della comunicazione e problemi  “interpretativi”  a fruitori delle notizie.
In questo modo, la scelta che gli stessi giornalisti saranno chiamati ad operare sarà difficile: prevarranno il sensazionalismo esasperato, il puro intrattenimento, quando non anche il pettegolezzo gratuito, la critica infondata, la cronaca distorta, con buona pace per privacy e tutela della persona.
Il risultato sarà la perdita di credibilità per una professione che, al contrario, riveste un ruolo di primo piano nell’attuale fase politica;non è più rimandabile l’incontro tra etica e giornalismo, in modo che  «ogni giornalista dovrebbe sapersi confrontare con l’etica, guardarsi allo specchio che questa, continuamente, gli offre per riflettere su se stesso e sulla propria attività, per riscoprirsi portatore di quei valori sui quali ieri, oggi e nel suo futuro dovrebbe fondarsi ogni modello di società.»
Occorre che il giornalista e l’etica si incontrino sempre più spesso per evitare che una professione così delicata possa trasformarsi in uno strumento di pericolosa gestione del potere – il celebre quarto potere di O. Welles – con tutte le inevitabili conseguenze non sempre prevedibili; occorre che il giornalista non si trasformi in strumento del potere, ma sappia cogliere e denunciare le distorsioni dello stesso: questo perché «l’etica è interpellata oggi per contribuire alla formazione degli spiriti liberi, capaci di opporsi senza titubanza alla presa dei rapporti puramente utilitari nel campo dei media, in modo da assicurare spazi migliori al giornalismo di qualità, all’informazione libera e al compito critico, e permettere, così, all’informazione di svolgere pienamente la loro funzione pubblica.»
Queste riflessioni – dirette alla costruzione di un giornalismo eticamente orientato – prendono origine dalla consapevolezza che da tempo la categoria dei giornalisti non goda di una buona reputazione tra i lettori ed in genere nell’opinione pubblica, diventata sempre più attenta oltre che esigente quando si tratta di pubblicare e gestire notizie che riguardano la sfera privata, anche se di personaggi pubblici; le proteste della categoria dei  “lettori”  riguardano soprattutto   quella   che   sembra   essere  «la   nuova  specialità  dei giornalisti, il gossip, il pettegolezzo, meglio se a sfondo erotico, che secondo Umberto Eco è divenuta  “la materia prima dell’informazione”; Eco ha citato l’esempio del numero di pagine e colonne dedicate al c.d.  “Sexygate”  gonfiato per incastrare il Presidente Bill Clinton e riuscire a destituirlo.»
Quel celebre scandalo “a luci rosse”  che coinvolse alla fine degli anni ’90 del XX secolo il vertice della Casa Bianca è stato solo il più famoso dei casi in cui il giornalismo ha abbandonato del tutto la linea dell’eticamente corretto per avviarsi sul più redditizio sentiero del guadagno sicuro; questo perché editori di importanti  “newspaper” – soprattutto americani – sono diventati  magnati  della  pubblicità  il  cui  unico  interesse  è il  profitto  esasperato,   con  la  pubblicità  che  arriva  a  produrre  il 70 – 80%  dei redditi, divenendo così la prima fonte di preoccupazione delle testate d’oltre oceano.
Solo così possiamo spiegare come «“la febbre dell’oro” che inquina sempre più giornali, radio e tv, determina una concorrenza sempre più sciolta dalle regole, anche responsabile della banalizzazione dei contenuti, mirati più sull’intrattenimento di massa che su una seria informazione.»
Questo  giornalismo  tutto  sensazioni e lustrini ha fatto sì che si  producesse  perdita  di  credibilità,  disaffezione  del   pubblico  e, conseguentemente, perdita vertiginosa nella vendita delle copie: ed il dato è sempre più allarmante. Basti pensare che nella patria del giornalismo da  “prima pagina”,  tra il 1970 ed il 1997,  la c.d. readership – cioè  il  potere  di  lettura  di  un  quotidiano – è  scesa dal  78%  al 59%, con previsioni ancora più drammatiche per il trentennio a seguire.
Causa di tali tracolli che hanno colpito anche gli ascolti televisivi, è stato certamente il crollo di standard professionali ed etici dell’attività giornalistica, aggravata anche dal fatto che fino ad appena trent’anni fa i giornalisti dovevano farsi in quattro per carpire notizie e scoop; oggi basta rimanere seduti comodamente in poltrona, internet alla mano, per cogliere tutto il notiziabile da ogni angolo del pianeta.
E questo perché «la cultura-internet è una cultura dell’immediato e dell’istantaneo, una cultura dell’ubiquità che incoraggia la domanda del tutto, ovunque e subito»;è come se considerassimo i tradizionali media come delle monarchie dell’informazione in cui quest’ultima discende da un'unica fonte, laddove «internet funziona piuttosto alla maniera dell’anarchia: chiunque vi si esprime, in qualsiasi luogo, in ogni momento, senza possibile controllo immediato.»
Il  rischio  è  quello  di  assistere  al crollo della democrazia nei mass-media, con pericolose derive e totalitarismi nel sistema delle comunicazioni, forse neanche presagite da chi, come Karl Popper, aveva per tempo avvertito sui rischi di tali degenerazioni, considerato che, solo per rimanere nel campo della comunicazione per immagini, «la maggioranza dei professionisti della Tv non si rende conto appieno della propria responsabilità, non sono capaci di valutare la portata del loro potere.»
Il comportamento degli operatori dei media ha avuto il risultato di trasformare la stessa società ed il suo potere politico in un grande contenitore mediatico dove tutto è sotto gli occhi di tutti, dove la stessa umanità è il risultato di un continuo progettare da parte di chi detiene il controllo di questo  “quarto potere”:  e  «il minimo che possiamo osservare è che una valutazione complessiva dell’importanza attuale e delle conseguenze sociali a medio e a lungo termine di un consumo mediale su larga scala non sembra imporsi nelle istituzioni pubbliche con l’urgenza e la gravità che il fenomeno sembra esigere.»
E questo non-rapporto tra media ed istituzioni pubbliche è stato analizzato proprio come la caratteristica tipica della fine del Ventesimo secolo,  un legame «tra il processo sempre più accelerato di globalizzazione, determinato soprattutto dalla immaginabile accelerazione nel settore delle comunicazioni e in quello dei trasporti, e l’incapacità delle istituzioni pubbliche e dei comportamenti collettivi degli esseri umani ad accordarsi a tale processo.»
Non è quindi difficile capire come ad una esasperata moltiplicazione dei mezzi di comunicazione, unitamente ad una loro continua trasformazione tecnologica, non corrisponda «un’adeguata consapevolezza pubblica che i  “nuovi media” impersonano, dato il loro impatto sui modelli sociali e i comportamenti morali di vaste masse, tenuto conto anche del tempo che assorbono, sono parte costitutiva di un progetto globale di società.»
Se l’obiettivo di molti è quello di dettare regole etiche che siano in grado di canalizzare le moderne comunicazioni entro spazi sempre più consoni ai diritti dei consumatori delle stesse, si ha comunque la consapevolezza che «qualsiasi prospettiva di regolamentazione dell’anacronismo mediatico presente urta con l’opposizione feroce di coloro che vengono chiamati  “i libertari”, particolarmente numerosi ed influenti negli Stati Uniti», gruppi sempre  più  consapevoli  delle illimitate possibilità di potere che può discendere dal controllo dei nuovi media che «non esitano a proclamare, per esempio, che internet deve essere uno spazio di libertà assoluta, un gigantesco forum mondiale, aperto a tutti, senza costrizioni né discriminazioni»;  una moderna  “agorà”  con lo scopo di divenire l’unico luogo planetario cui tutti possano liberamente accedere, per scambiare pensieri, prodotti, teorie.  Si tratterebbe di quella dimensione definibile come  la “libertà del w.w.w.”.
È il ritorno dell’ideologia utilitaristica, di un neo-liberismo esasperato che permette di fare ciò che si vuole: ma «applicata all’informazione e alla comunicazione, questa dottrina comporta la preferenza per il paradigma della comunicazione funzionale, piuttosto che della comunicazione normativa; si teorizza, anzi, la possibilità di una “comunicazione mondiale” senza alcun rapporto con il modello della  “comunicazione normativa”.»
Non possiamo, allora, prescindere da un modello comunicativo che sia, da un lato, vicino ai principi fondamentali della libertà, dignità ed uguaglianza di tutti i soggetti che vivono in una determinata realtà politica, ma che – dall’altro – sia proteso alla ricerca  di  un  proprio  ordine  interno:  insomma, non potremmo prescindere dall’idea  di  una  “comunicazione normativa”  che  per  sè  stessa  presuppone  l’idea  di  norme, regole,  codici.
Anche il versante della  “comunicazione funzionale”  non è  però  distaccato da un minimo di regole-base, fondamentali per la sopravvivenza del proprio apparato: quella dell’esistenza di regole assolutamente inevitabili è – in fondo – l’essenza stessa del pensiero liberale classico che ha avuto in Karl Popper  uno dei suoi massimi maestri,  soprattutto  nella concezione che ogni potere pubblico non può essere illimitato ma deve subire controlli da parte di altri poteri.
È il fine della “società aperta”: fare in modo che si possano proteggere tutti i consociati dagli abusi di una sua parte.
Oggi, il mondo della comunicazione e dell’informazione vive essenzialmente tra queste due dimensioni contraddittorie – normativa e funzionale – tanto che uno dei più fini analisti del problema ha notato come  «il posto crescente della dimensione funzionale non basta a reificare  e ad allenare la dimensione normativa della comunicazione, perché è in nome di questa dimensione normativa che le industrie si sviluppano, lasciando uno spazio a partire da quale è sempre possibile denunciare le sfasature tra la promessa dei discorsi e la realtà degli interessi.»
Secondo il direttore del laboratorio  “Comunicazione e Politica”  è  possibile  affermare  che  «il   margine   di   manovra   si identifica nella capacità critica che non può mai essere distrutta, perché si origina nella dimensione antropologica della comunicazione.»
Si parte, dunque, dal profilo critico di ogni consociato, inteso come capacità di distinguere «ciò che, nelle promesse, rinvia all’ideale normativo da ciò che rinvia ad una realtà funzionale, di separare il vero dal falso, i discorsi dalle realtà, i valori dagli interessi […].»
Vi è poi da aggiungere come «la comunicazione presenti un elemento comune con la democrazia, altro concetto centrale  della modernità, quello  di poter rapportare i fatti ai valori.»
E se teniamo presente che – in un certo senso – la comunicazione e l’informazione permettono proprio il rapportare di fatti (avvenimenti, notizie, cronaca) a valori (quelli che tutelano la persona), allora è ben chiaro il senso di questa particolare analisi tendente ad uniformare il mondo dell’informazione ai principi generali dei sistemi democratici contemporanei.

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2. Se siamo consapevoli del fatto che la comunicazione rappresenta, oggi, un campo su cui si giocherà una partita fondamentale per le sorti della libertà complessivamente data, dobbiamo parallelamente essere consapevoli di come «qualsiasi progresso della libertà e della responsabilità in questo campo strategico non sarebbe attualmente immaginabile prescindendo da un’opzione preliminare, che porta all’affermazione di un postulato: quello che l’informazione e la comunicazione non sono assimilabili – in virtù della loro stessa natura intrinseca di beni sociali – ad una merce qualsiasi, né ad una funzione meramente privata, ma piuttosto ad un  “pubblico mandato”,  ad un “offentliche Aufgabe”.»
Solo prendendo per buona – ed accettando – questa teoria che si fa comunemente risalire alla dottrina tedesca, ci si rende perfettamente conto di come l’informazione non possa essere equiparata ad una merce di scambio, quasi la si vendesse ad acquirenti privati;  al limite, si può sostenere che l’informazione possa influenzare i valori di democrazia e civiltà comunemente accettati nelle società contemporanee.
Questo è il postulato che si cerca di far accettare alla comunità degli attori del mondo dell’informazione, per stabilire – soprattutto – delle  regole  che  regolino  un  mercato  che appare in  piena  evoluzione,  dominato sempre più da gruppi di potere economico, dagli indici d’ascolto o dalle opinioni dei politici.
Non sarebbe errato accettare, ad esempio, il suggerimento che nel  1995  Karl Popper espresse, circa l’istituzione di una sorta di  “patente”  per tutti i soggetti interessati all’esercizio di professioni mediatiche, quasi una riformulazione del Giuramento di Ippocrate adattato alle esigenze degli attori del mondo delle comunicazioni, una sorta di summa deontologica per quanti fossero impegnati nel difficile mestiere dell’informazione: in questo modo, anche il giornalista sarebbe obbligato alla ricerca della verità, al rispetto della dignità umana, al mantenersi equidistante tra gli interessi politici ed economici, al coltivare la sua professione rispettando regole etiche e giuridiche oggi indispensabili.
E proprio all’inevitabilità di una seria regolamentazione venne dedicata, una ventina d’anni fa,  una  tavola rotonda svoltasi nel gennaio del 1996,
che raccolse quella provocazione popperiana ribaltandola nel vasto ed articolato panorama italiano: si affermò, in quella occasione, che «la complessità dei mezzi di comunicazione e la rapida e continua evoluzione delle loro caratteristiche, impongono l’adozione di strumenti di regolamentazione flessibili, dotati di autonomia decisionale [...]»
Era giunto il momento di prendere sul serio il consiglio del filosofo della  “società aperta”, allo scopo di arginare i potenziali pericoli di un’informazione selvaggia che rispondeva solo a regole di  “cassa”  e non ai principi costituzionali di tutela della persona in tutte le sue dimensioni.
Già l’Europa dei giornalisti aveva conosciuto, tra il  1954  ed il  1971,  dichiarazioni dei diritti e doveri del giornalista (Bordeaux  e  Monaco di Baviera),  mentre i colleghi italiani potevano vantare -giusto per citare qualche storico esempio-  la “Carta di Treviso” del  1990 e  la  “Carta dei doveri”  del  1994, approvata dall’Ordine Nazionale e dalla  Federazione Nazionale della Stampa Italiana,  sino al recente Codice deontologico del 27 marzo 1998 che, tra l’altro, ha fissato i principi in materia di privacy, interesse pubblico, violenza delle immagini, consenso dell’interessato, diritto alla non discriminazione, tutela delle persone malate, tutela della sfera sessuale.
Il diritto-dovere di pubblicare è ammesso «nell’ambito del perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona  se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale pubblica.»
Così «la Carta di Treviso (1990) ha  costituito  una  testimonianza  eloquente  di  una  nuova  fase della  sensibilità  deontologica  dei  comunicatori;  si  è  passati dalla preoccupazione di autoregolare i propri ambiti di libertà professionale alla premura di salvaguardare anche gli interessi dei membri più deboli ed inermi della cittadinanza dinanzi alla virtuale strapotenza dei media.»
Le regole non mancano, anzi abbondano, se solo vogliamo ricordare le più importanti: c’è l’art. 21 Costituzione, l’art. 11 della Legge n.69 del 03/02/63 sull’ordinamento professionale dei giornalisti, la Carta dei doveri dell’ 8/6/1993,  la Legge n.675 del 31/12/1996,  la già citata Carta di Treviso del 1990, oltre a vari codici  di  autoregolamentazione  per giornali e radio tv,  pubbliche o private; ma c’è anche il rischio è che queste rimangano lettera morta.
Da qui l’esigenza di attuare realmente dei codici etici  che siano in grado di operare su scala nazionale ed internazionale con la stessa cogenza sostanziale, in modo da servire universalmente come strumento giuridico nelle mani di utenti sempre più indifesi: il caso della rete dell’internet è più che mai emblematico, con milioni di «utenti lasciati a navigare senza alcuna difesa e senza bussola nell’oceano dell’infocomunicazione globalizzata (che) non sono meno abbandonati dei giornalisti ormai privi di reale difesa nell’impegno per un giornalismo di quantità, quello che finisce ineluttabilmente penalizzato  sotto  la  magnitudine  delle coalizioni degli interessi nel settore e un’applicazione forsennata delle leggi di mercato.»
È innegabile che la pressione del sistema economico abbia raggiunto livelli elevatissimi, ma è altrettanto vero che proprio nell’attuale momento storico l’etica possa rappresentare l’unica alternativa per recuperare quello spazio, alla libertà di informazione e comunicazione, che non può assolutamente mancare.
In pratica «la rottura del rapporto tra informazione e società, a causa del primato economico, passa inevitabilmente per l’accantonamento delle regole deontologiche basilari, ma questa esplosione manda in frantumi anche i valori di un giornalismo di qualità e ne rende precaria l’affidabilità, allontanandone gli utenti.»
Questo è il grande enigma che il mondo dell’informazione dovrà affrontare e risolvere, stretto com’è tra l’esigenza di un corretto etico tutto da reclamare e la realtà fatta di spietati interessi economici che alleati dell’etica proprio non sono: e tutto ciò proprio nel momento in cui forte è il passaggio storico sul dibattito etico e sui fondamenti morali della comunicazione.
Se, in passato, alcune forme di assolutismo innalzavano il livello dell’etica per dare un’assurda giustificazione all’istituto della censura  e  per  controllare la libertà di stampa, oggi – guarda caso – la  ricerca  di  un  profilo  etico  è voluta proprio dai sostenitori della cultura libertaria, ben consapevoli che la stessa etica rappresenti una tra le condizioni di sopravvivenza della libertà oggetto di queste riflessioni, senza la quale l’autodistruzione e l’implosione sarebbero i fenomeni pronti a verificarsi.
Oggi, dopo le estenuanti lotte per far sopravvivere ed imporre una libera informazione, è tempo per la scelta di valori che servano da confini certi e sicuri entro i quali quella libertà possa esprimersi al meglio, all’interno di una società pluralista con l’aiuto di modelli che operino da continuo motore di norme e valori: le regole non potrebbero diventare  “normative”  senza un preliminare consenso sui valori.
Ecco perché sembrano maturi i tempi per chiedersi «se sia utile e se vi siano le condizioni per compiere, nelle società a capitalismo avanzato,  il passaggio dalla deontologia  all’etica,  e
dall’etica alla norma, offrendo nuovi e più efficaci spazi di applicabilità al  “principio di responsabilità”, come Hans Jonas lo aveva definito.»
Altri si sono spinti oltre, sottolineando la quasi inevitabilità di una immediata riforma del sistema comunicativo, senza correre il rischio di pericolosi attacchi alla libertà fondamentale oggetto del nostro studio: riforma, questa, che dovrebbe avere come modello la stessa norma  fondamentale,  cioè  la costituzione democratica di ogni comunità, in particolar modo piegata alle nuove esigenze del media televisivo: «le regole che la tv dovrebbe dare a sè stessa risulterebbero essenzialmente somiglianti a quelle contenute nelle nostre costituzioni: libertà d’opinione e di espressione; diritti delle maggioranze; delle minoranze e degli individui; creazione di un potere morale e giuridico somigliante  al potere giudiziario; questo codice di diritti e di obblighi dovrebbe essere elaborato, come nella democrazia politica, da tutti gli interessati: produttori, impiegati, attori e lo stesso pubblico.»
La proposta di Octavio Paz, Nobel per la letteratura, è di quelle forti: ovvero la convinzione che alla base di questo sistema debba necessariamente collocarsi un  “patto etico”,  capace di coinvolgere sia l’ambito privato – i cittadini-consumatori – che quello pubblico – associazioni, poteri statali – allo scopo di indicare una piramide di valori irrinunciabili che servano da base per un vero  “contratto sociale”.
Tutto il sistema della comunicazione dovrebbe – perciò – essere proteso alla ricerca di quelle «condizioni etiche minime della comunicazione e dell’informazione, sulle quali si considera necessario concentrare il consenso, individuate nella ricerca della verità dei fatti, nel rispetto della dignità della persona – specialmente se  debole  o  in   situazione  di  debolezza  – nell’indipendenza  dagli interessi o dalle funzioni del potere politico, economico e finanziario.»
Ed è più che mai «significativo che fino ad un certo periodo la preoccupazione maggiore è stata quella di assicurare la libertà di stampa come manifestazione della più ampia libertà di esprimere il proprio pensiero»,  mentre «per molto tempo si è vista in una posizione secondaria o si è trascurata del tutto la condizione dell’individuo, non protagonista ma oggetto della notizia, dell’informazione.»
C’è molto su cui riflettere…


Dedicatio

 

Dedico queste riflessioni alla cara memoria di Giancarlo Zizola (1936-2011), vaticanista, scrittore, intellettuale veneto-calabrese, in ricordo dei Suoi insegnamenti sul tema dell’etica comunicativa.   



















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