IL LIBRO. Con questo romanzo lo scrittore veneto riuscì ad imporre all’opinione pubblica italiana il paesaggio fisico ed interiore della terra di Calabria

Nel 1951, all’indomani del suo ritorno dal campo di prigionia di Hereford, in Texas, Giuseppe Berto diede alle stampe un romanzo pronto a sorprendere critica e pubblico dello scrittore di Mogliano Veneto: all’apice della fase neorealistica della sua produzione, un veneto iniziava ad interessarsi di una terra lontana per collocazione geografica e sentire culturale, suscitando anche un certo disagio tra molti intellettuali suoi contemporanei, dai quali non solo non fu mai amato, ma addirittura perseguitato ed osteggiato: forse anche ghettizzato.

Berto iniziava, così, ad interessarsi direttamente della questione meridionale, entrava in contatto con la Calabria, regione visivamente sconosciuta alla maggior parte dei nostri connazionali dell’epoca e, come se non bastasse, ambientava il suo romanzo nientemeno che tra gli sperduti boschi della Sila. “L’ambiente e l’epoca hanno, naturalmente, una grande importanza nella struttura del romanzo: la regione in cui si svolge la vicenda, in primo luogo, è una terra dove un secolare immobilismo sociale ha esasperato le condizioni di vita degli abitanti, scavando un abisso tra la massa dei poveri e dei diseredati, vittime dell’ignoranza e predestinati allo sfruttamento, e la classe ristretta dei proprietari, i padroni dei latifondi che vivono lontano, chiusi nella loro superbia di gente ricca; e niente di più facile che, in simili condizioni, scoppiassero violente ribellioni sedate purtroppo con la forza, oppure nascessero forme di reazione che portavano gli individui a diventare dei fuorilegge, circondati talora da un notevole prestigio popolare ma perseguitati duramente dalle autorità”.

Federico Roncoroni, nell’introduzione al testo, inquadra l’ambiente ed il periodo storico -siamo intorno al 1943- che fanno da sfondo alla vicenda del protagonista, Michele Rende: il suo ritorno al paese natale -Santo Stefano di Aprigliano- l’uccisione di Natale Aprici, l’accusa nei suoi confronti di omicidio e la successiva condanna a tredici anni di carcere, nonostante l’assoluta estraneità dai fatti, visto che l’innocente si trovava, la sera dell’omicidio, in compagnia di una ragazza che però, per difendere la sua onorabilità, negò di averlo mai incontrato. Il focus del romanzo è dato dalla storia di Michele, anche se la sua vicenda umana è presentata come il frutto della ricostruzione del giovane Nino Savaglio che, a distanza di tempo, ricorda e racconta in prima persona, permettendo che proprio su di sé si sposti l’obiettivo del lettore: “ricordo bene quand’ egli arrivò la prima volta nel nostro paese: era primavera, poco tempo prima che venisse la Pasqua. Avevamo già avuto un inizio di primavera confuso, quell’anno. Già alla fine di gennaio c’erano state delle giornate proprio calde, e così il grano nei campi esposti al sole era cresciuto in fretta, e in fondo alla valle le gemme degli alberi s’erano ingrossate fino a scoppiare. Ma poi, durante tutto il mese di febbraio erano sopravvenute delle burrasche, una di seguito all’altra: il vento aveva cominciato a soffiare da levante portando nuvole scure che non finivano mai, e l’aria che s’infiltrava nella nostra valle era gelata e carica di pioggia. I terreni da semina, che erano costruiti a terrazza contro il pendio della montagna, divennero pesanti e in molti punti franarono (…) e un raccolto andato a male avrebbe portato la fame per molti mesi.”

Le alterne vicende di Miche Rende, alla fine, lo trasformeranno in un fuorilegge: fuggito, infatti, dal carcere ove era ingiustamente detenuto, “il brigante” diventerà il paladino dei deboli e degli oppressi, di quella popolazione contadina calabrese che aiuterà, anche grazie all’occupazione delle terre; uno “strano apostolo piuttosto sanguinario che ama circondarsi del mistero e si fa sobillatore, concionatore da comizio” (Falqui). Al di la della durezza del giudizio cui la critica sottopose il protagonista, nella visione di Berto,  Michele Rende è il campione di quel romanzo neorealista che tanto successo avrà nella letteratura come nella cinematografia di quegli anni: il protagonista è l’alfiere della rivolta dei contadini contro i padroni, tematica di primissimo piano, soprattutto quando protagonisti erano persone che per fame occupavano le terre lasciate incolte dai ricchi latifondisti: poveri contadini  “così fuori dal mondo, che non avremmo mai immaginato che la guerra sarebbe passata sotto i nostri occhi: invece, un giorno, gli eserciti cominciarono a scendere per la strada dell’altopiano, perché le strade più importanti lungo la costa erano troppo bombardate (…);  non si fermavano, perché avevano fretta di scappare verso il nord e poichè non si fermavano per farci del male, noi stavamo a guardarli con quel senso di meravigliata pietà, che così facilmente nasce nella gente semplice per chi non ha fortuna”, come ricorda Nino, vero Io narrante nel romanzo.

Quei contadini -gente laboriosa, tutta dedita a strappare pane dai campi ed a curare le proprie abitazioni- si erano trovati così tra due fuochi, tra i tedeschi che si ritiravano verso le più sicure città del centro-nord della penisola e gli anglo-americani che li braccavano, dopo aver vittoriosamente conquistato la Sicilia e la Calabria meridionale. E quei contadini divennero parte integrante del paesaggio che Berto -lo scrittore del Nord che amava il Sud- poneva all’attenzione di un’opinione pubblica che forse ignorava l’esistenza dello stesso altopiano silano: così come parte integrante del paesaggio era lo stesso Michele Rende, catapultato in mezzo a quella vicenda insieme alla sua nobile missione: sostenere la distribuzione delle terre ai contadini per eliminare i latifondi improduttivi e sollevare dalla miseria le classi più povere, in modo che ogni uomo ricevesse “un giusto lavoro e un giusto compenso”. Così, da vittima di un errore giudiziario, da evaso in cerca di verità, egli diventa -per tutti- “il brigante”.

Al di là delle motivazioni di ordine politico e sociale -Berto ci regalerà un quadro completo del fenomeno del banditismo nell’Italia meridionale- “Il brigante” servì, soprattutto, per offrire al lettore un romanzo lirico che affrontasse il tema dell’amicizia e del rispetto tra le persone, all’interno di una società italiana che era quanto di più dilaniato vi potesse essere: e l’opera incontrò il meritato successo, se è vero che il “Time” lo definì “uno dei più belli e tragici romanzi che siano comparsi da anni” e l’abile pellicola di Renato Castellani, nel 1961, lo traspose sul grande schermo, amplificando il suo messaggio catartico e naturalista ed offrendo le basi per quel neorealismo post-bellico che traeva la propria linfa vitale fin dentro ai boschi della selva calabrese. Pronta, finalmente, ad uscire da un isolamento non solo geografico…     

Per saperne di più:
Giuseppe Berto, Il brigante, Arnoldo Mondatori Scuola (Mi), 1989

La Provincia di Cosenza                    Egidio Lorito, 04 gennaio 2015