Il virgolettato questa volta è d’obbligo, non foss’altro che prendo a prestito il titolo di una recente ricerca di un pubblicista calabrese, esperto in pianificazione territoriale, che ha trasformato alcune recenti riflessioni in un volumetto (Rubbettino, 2005), che ha posto sotto la lente d’ingrandimento “contraddizioni, opportunità e paradossi del caso Calabria”. L’interrogativo che pongo da tempo e che ha trovato nella pubblicazione di Emilio Tarditi un’autorevole sponda, suona più o meno così: coma fa una terra come la Calabria, nella quale non manca praticamente nulla dal punto di vista turistico-ambientale e paesaggistico, ad occupare ancora una posizione di gran ritardo tra le mete prescelte in Italia ed in Europa?
Sarebbe veramente lungo citare i canonici 780 chilometri di costa, i due mari, i sei sistemi montuosi, i numerosi centri termali, i tre Parchi Nazionali (Pollino, Sila e Aspromonte), le riserve regionali, i parchi archeologici e letterari e tutto quel immenso complesso socio-antropologico ed ambientale che fanno della Calabria, come ama ripetere il mio fraterno amico Francesco Bevilacqua -uno che mastica di ambiente come pochi nella terra calabra- una “penisola nella Penisola”, non solo dal versante strettamente geo-morfologico. Queste riflessioni mi si ripropongono costantemente ad ogni estate -ma purtroppo anche nelle altre stagioni dell’anno- quando assisto all’ormai classico assalto di pseudo-turisti che calano in Calabria, soprattutto lungo la costa tirrenica, per consumare -letteralmente- ciò che la Natura si era ingegnata da queste parti. Da tempo denuncio questo stato di cose: le mie “Tracce di Calabria”, in fondo, sono nate come un atto d’accusa contro chi, dall’interno e dall’esterno, ha contribuito a trasformare questo mirabile territorio in un’immensa serie di cattedrali del deserto, di occasioni perdute, di orrori urbanistici, di ecomostri, di caos umani che nel periodo estivo la trasformano, a loro volta, in un grande bazar turistico. “La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni, dagli arrampicamenti, dal consumismo e industrializzazione, che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i calabrese, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza, e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo, e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio”. (Giuseppe Berto, 1977). Anche oggi…
Eco di Basilicata anno V° n. 16
Egidio Lorito