Rizzoli, Milano 2010, pagg. 223, € 18,00

Pierluigi Battista è un fine intellettuale, anzi un intellettuale di razza come pochi ve ne sono in giro. E lo dico da perfetto sconosciuto -nel senso, cioè, di non conoscerlo ancora di persona- per cui il mio “giudizio” -la mia recensione- si ferma al dato puramente fattuale. Mi hanno sempre colpito, insieme ad un pacato “modus operandi”, le sue qualità di profondo conoscitore di tutto ciò che affronta, di ciò su cui è chiamato a ragionare: lo abbia fatto -e continui a farlo- sulle pagine del “Corriere della Sera”, di cui è stato anche vicedirettore dal 2004 al 2009 con la cura delle pagine culturali;lo abbia fatto sugli schermi della televisione di Stato, nel corso di un riuscito programma di approfondimento come “Batti e ribatti”, andato in onda sulla rete ammiraglia della Rai nel 2004 o nel corso delle tre recenti edizioni della trasmissione “Altra storia”, in onda su La7.

“Pigi”, come lo chiamano molti con quel pizzico di affetto che si deve ad uno che, evidentemente, è nato “nel giornalismo”, ha di recente dato alle stampe un testo che solo per il titolo -anzi per il sottotitolo- ha solleticato la mia curiosità legata al fatto che si parli di “intellettuali” italiani, anche se purtroppo nella loro condizione estintiva. Così ho contattato il caro amico e collega Paolo Zancarli, “guest” nell’Ufficio Stampa della Rcs che, a stretto a giro di posta, mi ha fatto pervenire le 223 pagine dell’ultimo lavoro editoriale del nostro. “Pigi” Battista ha iniziato a “scrivere” sullo storico “MondOperaio”, su “L’Espresso” e su “Epoca” e “Storia illustrata” allora diretti da Alberto Statera, per approdare agli inizi degli anni ’90 al quotidiano torinese “La Stampa”;un anno a “Panorama” sotto la direzione di Giuliano Ferrara e poi il ritorno al quotidiano torinese. Attualmente, il lettore può gustarselo anche su “Magazine”, il settimanale del Corriere, ove la sua rubrica, “Finale di partita”, si è conquistata un pubblico di appassionati estimatori.
La tesi di Battista è tutta nella sua “Prefazione”: “Gli intellettuali <>, in fondo, sostengono cose molto semplici e lineari: anche per questo non esercitano molta attrazione e suscitano poco entusiasmo. I conformisti, al contrario, sanno addobbare i loro discorsi con l’enfasi della profondità. Per rendere omaggio a Hitler, Martin Heidegger affascinava l’uditorio universitario di Friburgo indicando all’orizzonte le vette dell’Essere. Per allinearsi alle intimazioni staliniste, Gyorgy Lukàcs scomodava concetti molto impegnativi come la <>(…). Gli irregolari, che sono spiriti irrequieti e caparbi, amano invece dare risposte chiare agli interrogativi che generalmente i conformisti sono inclini a disertare (…)”. E così, da Orwell ad Hemingway e Malraux, da Salvemini e Camus, da Bernanos a Simone Weil, “Pigi” Battista ci guida all’interno di una lunga galleria di intellettuali, giustamente definiti “irregolari”, proprio perché assolutamente anticonformisti, spiriti liberi, non soggiogati o soggiogabili o, meglio ancora, non assolutamente proni a reclusioni in riserve culturali eccessivamente partigiane. Afferma, Battista, di Bernanos e Weil che “tradirono la loro appartenenza per non tradire sè stessi”.
Irregolarità ed anticonformismo, dunque, come tema conduttore delle sue riflessioni, come modello da celebrare e cantare: “l’epoca che viviamo è del tutto diversa, per fortuna. L’irregolarità culturale non espone più a ostracismi e discriminazioni, sebbene il conformismo sia più confortevole perché facilita la vita di relazione, rinsalda lo spirito di gruppo ed alimenta il calore di un’accogliente comunità (…) L’unica pena che l’irregolare è costretto a subire non è la marginalizzazione coatta: è lo sconforto”.
Già: come non sottoscrivere appieno! E non perché io, terzo osservatore in questa recensione, mi debba -a mia volta- automaticamente “conformare” alla tesi di Battista: è la pura verità, accade ogni santo giorno nella nostra vita quotidiana, soprattutto per chi crede in idee (quelle non ce le faranno crollare mai, per fortuna) e valori che per nulla al mondo saremo costretti a barattare. Pessimismo? No, sincero realismo: lo stesso che, credo, Battista provi nell’affermare che “in Italia, in particolare, si acutizza lo scoramento per un simulacro di guerra civile inscenato ogni giorno da chi crede che il bipolarismo politico si traduca immediatamente in bipolarismo culturale e si sublimi in un bipolarismo antropologico. Come se davvero esistessero due blocchi omogenei, uno di destra e uno di sinistra. Come se davvero esistessero due distinti tipi umani, il tipo di destra e il tipo di sinistra. Non è vero, non esistono, Ma in Italia sono quindici anni che il dibattito culturale è abbagliato da questa finzione classificatoria (…). Funziona l’ovvio pomposo, l’effetto che fa, il pensiero stravolto nell’esasperazione parodistica dello scontro amico-nemico. Abbacinati dal caso italiano, gli intellettuali non capiscono più quello che succede nel mondo. Si indignano per un nonnulla dentro casa e non sanno più vedere le forche che un ancora rigoglioso dispotismo dissemina nel mondo. Spasmodicamente attenti alle baruffe che si accendono intorno ai palinsesti televisivi, sono totalmente insensibili alla macelleria che si consuma quotidianamente a Teheran (…)”. Senza volersi “conformare” alla tesi di Pierluigi Battista, come non dargli ragione! Un esempio? Prendiamo il nostro bel telecomando e digitiamo i tasti che ci permettono di passare da un canale ad un altro: pur cercando di sorvolare sul vuoto pneumatico che circonda molti dei “protagonisti” dei quotidiani talk show che -detto  francamente- dovrebbero prima conquistare quella famosa “patente” di cui parlava un monumento come Sir Karl Raymund Popper, a cosa assistiamo? Alla ridondante, ossessiva ripetizione di “destra” e “sinistra”;alla ridondante ed ossessiva collocazione di persone schierate pro o contro il solito potente di turno, del solito leader di partito o di Governo! Altro che banalità. Lo dice chiaro, Battista, che “anche per questo la cultura di sinistra ha smesso di pensare e quella di destra non riesce nemmeno a cominciare. La discussione politica diventa infinito commento della <>che tiene banco nel nuovo gioco della politica. Prevale la monotonia (e la monomania). Quindici anni perduti. Quindici anni di vuoto assoluto e conformista. Iniziare da capo sarà molto dura”.             
Ed eccole queste cinque succose parti de “I conformisti”: Nostalgie e (mancate) revisioni;Come eravamo (o avremmo voluto essere);Censure (a corrente alternata);Guerre (laiche) di religione;Il popolo (nell’illibertà): in ognuna di esse, l’attento lettore non farà fatica a trovare i molti -sembrano esserci tutti!- nomi ed episodi che Battista ha felicemente ripreso nel proprio testo per dimostrare come “uno spettro si aggira per l’Italia: solo questo è rimasto della vittima eccellente del nostro tempo, la cultura. Si è spenta, o a essere ottimisti è in coma, l’idea di pensiero come valore civico e civile, come vero sforzo di comprensione del reale, come libertà”.
Si avverte un senso di forte nostalgia per tutto ciò che sarebbe potuto essere e non è stato -immancabile il ricordo, in “Ripensamenti. A metà”, di quella storica iniziativa che nel 1977 Carlo Ripa di Meana battezzò come “Biennale del dissenso”. Già, il dissenso…
Si avverte uno sconforto, evidentemente umano, sul come eravamo e non siamo diventati -e qui il riferimento punta dritto a quegli “anni Settanta: il decennio più brutto”;c’è il disgusto per le “censure”, dovunque si verifichino e da chiunque provengano, “perciò è così raro che un intellettuale dichiari, come ha fatto Bernard-Henry Lévy, che la tolleranza è un valore così sacro e universale da dover essere onorato con chiunque, anche con il peggiore degli avversari”. C’è la condanna assoluta contro l’odio che proviene dalle idee religiose, sia che abbia come vittime giovani ragazze sottoposte al “linciaggio islamico”, sia che si tratti dei tanti, troppi casi di “cristiani uccisi dal silenzio”. E c’è, inevitabilmente, lo sdegno per il qualunquismo, sdoganato anche quello, con tanto di crescita “a dismisura anche dell’imponente schiera degli italiani che nel prevalere dell’uno o dell’altro partito attendono con ansia il primo gradino di un’inesorabile ascesa, oppure l’orlo di un precipizio infernale”. Con un bel contorno di “Nuovi antipatici”… .
Il tutto chiosato da tre “Lettere aperte” inviate ad Andrea Camilleri, Umberto Galimberti e Piergiorgio Odifreddi.
C’è questo e molto altro ancora ne “I conformisti”, che appare anche come un auspicio in favore di una nuova stagione di creatività culturale che Pierluigi Battista sembra augurare ai suoi lettori: “ed è vero, come scrive Giampiero Mughini nel monumento alla sua mania e <>novecentista La collezione, che la creatività futurista <>.

C’è solo da sperare…