Einaudi, Torino 2009, pp. 281, € 16,00

In una biblioteca che si rispetti, questo libro proprio non può mancare, non foss’altro che in esso si parla di altri libri. Giampiero Mughini, giornalista e scrittore di razza -intellettuale nel senso più profondo del termine- ci apre per la prima volta la sua biblioteca e ci racconta gli infiniti aneddoti e le storie legate alla pubblicazione in prima stampa dei Grandi Libri del secolo scorso. Cento anni di storia culturale ripercorsi partendo da una malattia da cui non si guarisce ma cui si sopravvive: la bibliofollia, come la chiama. Ed in effetti, i dieci capitoli del testo, più la bibliografia finale, danno conto di un lavoro certosino che attraversa il Novecento che Mughini trasforma in un secolo di carta, tanta ne è stata impressa da editori grandi e piccoli.

A partire dall’avventura di Filippo Tommaso Marinetti: “dagli albori del Novecento, quando Marinetti aveva trent’anni nella "grande Milano tradizionale e futurista" e s’apprestava a scatenare in Italia e nel mondo l’uragano letterario e artistico del Futurismo. Del cui esordio ufficiale -il Manifeste du Futurisme firmato da Martinetti sulla prima pagina del “Figaro” del 20 febbraio 1909- scocca in questo 2009 l’anno centenario. Marinetti e gli altri della sua banda, nessuno dei quali aveva toccato i trent’anni, aveva scritto questa tonitruante apologia della modernità alla notte, in quel suo appartamento milanese di Via Senato, sotto le cui finestre scorrevano allora le acque del Naviglio”. Tutto l’itinerario di Mughini si sviluppa, soprattutto, dalla natìa Catania sino alla Roma degli anni Settanta, in cui il nostro si era trasferito, come praticante-giornalista a Paese Sera: ed in questo peregrinare geo-culturale, viene ad innestarsi una cittadina arrampicata sui pendii dell’Appennino. “La casa della famiglia dei Campana è incastonata sui picchi dell’Appennino. Al limitare di una cittadina, Marradi, dove Dino Campana era nato nel 1895, che oggi figura amministrativamente come terra di Toscana e che geneticamente è invece terra di Romagna (…); ci sono rimasto in tutto mezz’ora, di più non ce l’avrei fatta tanto il gelo ti scorticava vivo (…) Era una casa di borghesia media, fatta di pietre aspre e spartane, che aveva al piano superiore una specie di ammezzato dove Campana si appartava talvolta a scrivere e dove certamente sono nate alcune poesie e prose poetiche dei Canti Orfici, la cui prima edizione del 1914 è il libro più drammatico del Novecento italiano”. In questo ricordo del piccolo paese appenninico si innesta anche una vicenda cara a Mughini, visto che “mio padre, Gino Mughini, era nato a Marradi nel 1899: per motivi di lavoro, mio padre negli ultimi anni Trenta s’era trasferito a Catania, dove conobbe mia madre. La casa natale di mio padre stava a un centinaio di metri da quella dei Campana (…)”. Una storia che continua in “Quei versi scritti in trincea”, in cui ripresenta una vicenda personale e poetica che avrebbe lasciato un segno indelebile nelle storia della letteratura italiana: “era una bisaccia atta a metterci il pane che il soldatino del 19° Reggimento Fanteria, Giuseppe Ungaretti si teneva stretta, nella primavera del 1916, a conservarvi le poesie che andava scrivendo seduto sulle rocce delle trincee; (…) Uno che aveva imparato la scuola della guerra, lì dove basta una pallottola a morire, aveva capito che bastano pochi versi a raccontare la vita e chi la vive (…)”.
Una storia che si focalizza, poi, attorno ai “Piccoli e grandi editori”: ne sono ricordati tanti, segno della fecondità dell’esperienza culturale italiana ma anche del coraggio di “imprenditori delle idee” che per nulla intimoriti dai “grandi”, hanno continuato a svolgere un ruolo prezioso e fecondo tra le pagine della cultura italiana. Personalmente sono molto legato a quello che Mughini definisce “il più piccolo di tutti. Non che Vanni Scheiwiller di libri ne abbia fatti pochi. Ne ha fatti un uragano. Nato a Milano nel 1934, da quando ha debuttato diciassettenne e fino al 1999 (anno della sua morte), ne ha pubblicati più di tremila. Il fatto è che erano libri di un formato piccolo piccolo. Giusti per lui che era piccolo di statura”. Dicevo di una mia predilezione per quest’editore milanese: sotto la sua cura, infatti, per molti anni, la storia, la geografia e la cultura della terra di Calabria hanno fatto bella mostra di sé in volumi che, invece, si presentavano come enormi tomi bellamente decorati con fotografie mozzafiato di una terra ancora troppo poco conosciuta per le sue vere peculiarità. E che dire dei romanzi! “Nella storia del romanzo italiano moderno c’è come un tunnel buio: un vuoto e un silenzio agghiaccianti durati venticinque anni. Tanti quanti separano l’uscita del secondo romanzo di Italo Svevo, Senilità, che nel 1898 bissa l’insuccesso di vendite e di pubblico di Una vita, uscito cinque anni prima, dalla prima edizione nel 1923 de La coscienza di Zeno, il terzo libro di Svevo e quello da cui parte finalmente la fortuna ed il riconoscimento dello scrittore triestino, il cui vero nome era Ettore Schmitz, nato nel 1861 da padre ungherese e da madre ebrea friulana (…)”. Poi ci sono i libri rari, quelli che valgono un pugno: “Per un pugno di libri rari”, appunto. “Nessuno mi accuserà di nazionalismo regionale (sono il siciliano meno sicilianista che esista al mondo) se dico che sono tante le strade letterarie che si dipartono dalla Sicilia e nelle quali non puoi non imbatterti (…)”. Ma il Novecento di Mughini è solo letteratura? Neanche per idea! E “Non solo letteratura” lo dimostra a chiare lettere, se ancora ci fossero dubbi.  Il Novecento, è “il secolo dove nascono il cinema, la fotografia, il design, il giornale a rotocalco, il fumetto, la pop music, la moda che erutta dal basso a cambiare il volto delle strade delle città moderne, la pubblicità e la sua molecolare invasività dei nostri occhi e delle nostre anime: chi separasse l’alta cultura (letteraria, filosofica, artistica) da tutto questo, sarebbe un idiota. Se ami e cerchi i libri italiani del Novecento, lo tocchi con mano il meticciato delle arti, la contiguità dei generi e dei linguaggi, il fatto che l’alto e il basso della comunicazione si fecondano reciprocamente in ogni istante”. E poi il ricordo di “Giovane Critica”, (“Che belle le riviste d’antan”): “nel salotto della casa catanese di mia madre eravamo in quattro o cinque seduti sul divano primo Ottocento, a discutere il che e il come dell’impresa (…); e due anni dopo la fine, entrai a far parte della pattuglia redazionale di “Mondoperaio”, forse la più bella rivista politica italiana degli ultimi trent’anni. Non erano uno scherzo quelle nostre riunioni di redazione dove sedevano Luciano Cafagna, Giuliano Amato, Luciano Visconi, Federico Mancini, Ernesto Galli della Loggia, l’allora debuttante Claudio Martelli, Giorgio Ruffolo, Gino Giugni (…)”.
“Il libro di esordio di Alberto Arbasino (siano a “I Novissimi”), Le piccole vacanze, pubblicato da Einaudi nel 1957, non lo posseggo nell’edizione originale (…): Quando è andato a Parigi negli anni Cinquanta, ci è andato da studioso di scienze politiche: uno dei suoi libri più belli, Un paese senza, che Garzanti ha pubblicato nel 1980 e dunque poco dopo l’omicidio di Aldo Moro,  è un libro di acuminata intelligenza delle cose pubbliche italiane (…)”
E c’è anche un “Poscritto, ovvero l’ultimo libro”, dedicato al libro di Camillo Sbarbaro: altre storie…
Che bella la bibliofollia di Giampiero Mughini. Un libro di tal fattura non può mancare, non foss’altro che in esso si parla di altri libri...

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